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In ricordo di un grande: Michelangelo Antonioni – prima puntata

Poco più di un anno fa, esattamente il 30 luglio, ci lasciava uno dei più grandi registi italiani: Michelangelo Antonioni. Senza ombra di dubbio possiamo dire che la sua opera è stata rilevante a livello mondiale: non solo per la collaborazione con attori, sceneggiatori e tecnici stranieri o per aver diretto più di un film fuori del territorio italiano ma anche e soprattutto per l’influsso che ha esercitato su numerosi registi, quali Wim Wenders o Alain Resnais, e per il grande apprezzamento della critica estera.

Sinteticamente ripercorriamo la sua vita: nato nel 1912 a Ferrara approda alla critica cinematografica alla fine degli anni trenta dopo aver conseguito la Laurea in Economia e Commercio (con una tesi relativa ai problemi di politica economica ne “I promessi sposi”). Negli anni quaranta dirige alcuni cortometraggi (il primo fu “Gente del Po”) e nel 1950 realizza il suo primo lungometraggio, “Cronaca di un amore”, che già denota alcuni tratti fondamentali della sua poetica. Seguono “I vinti”, “La signora senza camelie”, “Le amiche” e “Il grido”. Al successo di critica, però, non corrisponde quello del pubblico che arriverà nel 1960 con “L’avventura”, considerato uno dei suoi capolavori, con cui inizia la collaborazione con Monica Vitti, in seguito sua compagna, e che approfondisce la tematica dell’incomunicabilità, tematica già evidente dai suoi primi film e che costituirà la base di tutte le sue successive opere: “La notte”, “L’eclisse” e “Deserto rosso” (suo primo film a colori).

“L’avventura” segna anche l’avvio della lunga collaborazione con Tonino Guerra che scriverà le sceneggiature di quasi tutti i suoi film. Sul finire degli anni sessanta inizia a lavorare all’estero e dirige “Blow up” e “Zabriskie Point”. In seguito ad un documentario sulla Cina realizza un altro capolavoro “Professione: reporter”, girato in più paesi e nobilitato dalla magistrale interpretazione di Jack Nicholson e dalla fotografia di Luciano Tovoli. Negli anni ottanta realizza un film sperimentale, “Il mistero di Oberwald” e nel 1982 “Identificazione di una donna”. Dopo una lunghissima assenza causata anche da un ictus che lo ha reso muto e semiparalitico si avvale della collaborazione di Wim Wenders e dirige nel 1995 “Al di là delle nuvole”, film ad episodi ispirato ad alcuni suoi racconti, che purtroppo non raccoglie i favori della critica. L’ultima sua opera è “Eros” episodio de “Il filo pericoloso delle cose” (2005). Gli ultimi anni li trascorre dedicandosi ad una delle sue prime passioni: la pittura. E nello stesso giorno in cui ci abbandona viene a mancare un altro nome del cinema mondiale: Ingmar Bergman.

Ricordiamo il regista ferrarese recensendo alcune delle sue opere più significative. 

Le amiche (1955)

soggetto: M. Antonioni (dal racconto “Tra donne sole” di Cesare Pavese)

sceneggiatura: M. Antonioni, Suso Cecchi D’Amico, Alba De Cespedes

fotografia: Gianni Di Venanzo

musica: Giovanni Fusco

interpreti: Gabriele Ferzetti, Eleonora Rossi Drago, Madeleine Fischer, Franco Fabrizi, Ettore Manni, Valentina Cortese

 Con “Le amiche”, premiato con il Leone d’argento a Venezia, Antonioni realizza un film interessante sotto vari punti di vista. Innanzitutto è la prima (e unica fino ad ora) trasposizione  cinematografica di un racconto di Cesare Pavese: più volte romanzi di autori italiani quali, ad esempio Pirandello, D’Annunzio e Pratolini, hanno costituito il soggetto di film, ma nessun regista aveva mai pensato a Pavese. Altro aspetto rilevante è l’abilità con cui il regista riesce a delineare nell’arco di un’ora e mezza la psicologia di numerosi protagonisti a partire da Clelia (interpretata da Eleonora Rossi Drago, recentemente scomparsa) che arrivata a Torino è testimone del tentato suicidio di una ragazza, Rosetta. In tale occasione conosce una delle sue amiche, Momina, che a sua volta conosce l’architetto (Franco Fabrizi) che si sta occupando dei lavori nella casa di moda di Clelia. Su questi ed altri personaggi si concentrerà tutta la storia che vedrà Clelia (nel racconto di Pavese è anche narratrice) confrontarsi con le “amiche”: Rosetta, che fa capire di aver tentato il suicidio per amore di un uomo sposato (Lorenzo, impersonato da Gabriele Ferzetti), Momina, Mariella e Nene (la moglie di Lorenzo, al corrente della situazione). Scena emblematica è la gita al mare in cui tutte e tutti gettano la maschera svelando la loro ipocrisia: la stessa Rosetta accusa di ipocrisia Momina. Una situazione simile viene a verificarsi durante una cena in trattoria: Lorenzo ha appena saputo che Nene si trasferirà all’estero per lavoro. E’ Rosetta a riferirglielo, sicura che ciò possa costituire l’avvio di una relazione solida. Ma la reazione di Lorenzo è ben diversa. Con un banale pretesto arriverà alle mani con l’architetto e, dopo essersi sfogato con gli altri definendoli “falliti da salotto” se ne andrà. Rosetta gli va incontro ma lui la rifiuta. È la fine. La brevissima scena successiva ci mostra il ritrovamento del corpo annegato di Rosetta. Clelia si sente corresponsabile della sua morte. Ripartirà per Roma per motivi di lavoro interrompendo così anche la timida relazione che aveva instaurato con l’assistente dell’architetto (Ettore Manni). Antonioni mette in mostra il fallimento di tutti i protagonisti, l’incapacità di raggiungere i loro obiettivi e quindi anche la loro difficoltà di comunicare. E’ quindi già evidente nel regista l’attenzione verso questi aspetti che verranno trattati in maniera più sistematica nei film successivi. Come si è detto prima, un film di attori che ha una grande forza nei dialoghi (cui ha collaborato anche una scrittrice molto attenta alle storie femminili: Alba De Cespedes). Le opere posteriori saranno invece caratterizzate da una comunicatività affidata essenzialmente alle immagini: pensiamo a “Professione: reporter” che se non fosse per i pochi dialoghi potrebbe considerarsi un film muto. Concludendo possiamo considerare “Le amiche” il miglior film di Antonioni degli anni cinquanta. 

Deserto rosso (1964)

soggetto e sceneggiatura: M. Antonioni e Tonino Guerra

fotografia: Carlo Di Palma

musica: Giovanni Fusco

interpreti: Monica Vitti, Richard Harris, Carlo Chionetti, Rita Renoir 

Nella filmografia di Antonioni, “Deserto rosso” costituisce una delle tappe più importanti. Il film non è un capolavoro, anche se la critica francese lo ha definito tale, ma presenta alcuni aspetti che lo pongono tra le opere più moderne del regista romagnolo. La storia si svolge durante l’inverno del 1963 nella zona industriale di Ravenna: un fumo giallo, discariche, rifiuti industriali, questo il “deserto” in cui Giuliana (Monica Vitti), casalinga di 30 anni con figlio, è costretta a vivere per gli egoismi del marito Ugo, ingegnere chimico. Psicologicamente la donna è instabile: in precedenza ebbe un grave incidente d’auto (che in realtà fu un tentativo di suicidio) ed ora ha paura di tutto, trema, soffre di incubi notturni, ma soprattutto si sente estraniata all’interno della società. Nessuno si prende cura di lei, né il marito impegnato nei suoi affari, né il figlio, che si diverte ad angosciarla, né gli amici, gente senza arte né parte. Le cose sembrano mutare quando entra  in scena un nuovo protagonista, Corrado (Richard Harris), un ingegnere giunto a Ravenna per cercare operai disposti a lavorare in Patagonia. Fra di loro sembra instaurarsi una certa simpatia. Come Giuliana, anche Corrado non possiede un equilibrio psicologico ed è alquanto insicuro. “Delle volte mi sembra di non avere alcun diritto di trovarmi dove sono, per questo ho sempre voglia di andarmene”, afferma l’uomo. I due si incontrano per l’ultima volta in una camera d’albergo, ma non accade nulla (una simbolica spalliera di metallo rosso li divide). Dopo la partenza di Corrado, anche Giuliana vorrebbe andarsene, ma rinuncia. Nell’ultima sequenza rivediamo la donna con il figlio vagare senza meta tra le fabbriche e i detriti industriali come all’inizio del film.La sceneggiatura, scritta dal regista assieme a Tonino Guerra, riprende quelle che sono le tematiche fondamentali del cinema di Antonioni, a partire da “L’avventura” (1960) sino agli ultimi film. Anche qui la protagonista è conscia di vivere in un mondo freddo, assurdo, in cui l’affarismo domina sui sentimenti, dove le persone sono degli automi privi di personalità, dove il progresso ha attecchito; è difficile interpretare la realtà in un mondo come questo, perché tutto sembra falso. Di fronte a un tale stato di cose, Giuliana no reagisce e preferisce sognare; nella stupenda scena della favola narrata al figlio, vediamo anche cosa: un’isola ricca di vegetazione dove il mare limpido è solcato da uno splendido galeone (e non da una petroliera…) e regna la tranquillità. Un vero e proprio “paradiso incontaminato”, la perfetta antitesi della deprimente zona in cui Giuliana vive. È frequente in Antonioni l’allusione ad un luogo quasi primitivo, dove non è giunto il progresso; pensiamo alle isole Lipari ne “L’avventura”, alle foto del Kenya ne “L’eclisse”, al parco londinese di “Blow up”, al deserto in “Zabriskie point” e “Professione: reporter”, tutti luoghi ben diversi da quelli in cui i personaggi antonioniani vivono abitualmente. È soprattutto ne “L’eclisse”, opera migliore almeno nella sceneggiatura, che si notano taluni parallelismi con “Deserto rosso”: entrambe le protagoniste sono di natura irrequieta e non riescono a comprendere le “leggi” che regolano la società. Vittoria ne “L’eclisse” non capisce cosa sia veramente la Borsa (“Un ufficio, un mercato, un ring”) e ciò spiega il suo difficile rapporto con Piero, l’agente di cambio, e, alla stessa maniera, Giuliana non comprende l’utilità delle fabbriche. Il progresso è una delle principali cause dell’incomunicabilità e dell’alienazione, che tra l’altro sono le problematiche maggiormente dibattute nel cinema di Antonioni; ciò non deve far pensare ad una monotonia, poiché il prodotto finale è sempre risultato originale e al passo con i tempi. Tuttavia la sceneggiatura presenta alcune imperfezioni: spesso i dialoghi rendono l’opera un po’ troppo teorica ed anche la recitazione non è delle migliori. La vera novità è costituita dal colore, utilizzato per la prima volta da Antonioni, attraverso il quale sono stati ottenuti effetti visivi di grande prestigio. La bellezza delle immagini, cui va il contributo del direttore della fotografia Carlo di Palma, assegna al film grande forza e qualità, compensando così quelle pecche che caratterizzavano la sceneggiatura.   


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