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In ricordo di un grande: Michelangelo Antonioni - seconda puntata Proseguiamo la commemorazione di Michelangelo Antonioni con l’analisi di altri due suoi film chiave. La notte (1961):
soggetto:M.Antonioni sceneggiatura: M. Antonioni, E. Flaiano, T. Guerra fotografia: Gianni Di Venanzo
musica: Giorgio Gaslini
interpreti: Marcello Mastroianni, Jeanne Moreau, Monica Vitti, Bernhard Wicki, Vincenzo Corbella, Gitt Magrini
Secondo film della cosiddetta “trilogia” (assieme a “L’avventura” e “L’eclisse”) “La notte” costituisce uno dei maggiori risultati di Antonioni. Il punto di forza risiede principalmente nelle immagini che fanno del film una vera e propria opera d’arte (d’altro canto la fotografia e la pittura hanno sempre costituito per il regista una reale professione). Ed è a queste immagini che viene affidato il commento della storia di Lidia e Giovanni che si svolge nell’arco di circa dodici ore.
Lui (Marcello Mastroianni) è uno scrittore affermato; lei (Jeanne Moreau), una donna di ricca famiglia. Sposati da alcuni anni non hanno figli. Dopo i titoli di testa che scorrono sulle inquadrature dei grattacieli di Milano il film si apre con la visita della coppia ad un loro amico in stato terminale che, consapevole di aver poco da vivere, si rammarica di non essere stato capace di fare tutto quello che aveva progettato (“non ho avuto la forza di andare a fondo…” ). Lidia è costretta dopo pochi minuti ad andarsene: fuori della clinica scoppierà a piangere disperatamente (l’attrice francese oltre ad offrici una grande interpretazione incarna una delle più riuscite figure femminili del cinema di Antonioni). Giovanni uscirà poco dopo: fuori della stanza incontrerà una donna che, dopo averlo invitato nella sua stanza, lo abbraccerà in maniera possessiva.
Mentre si dirigono in macchina ad una cerimonia di presentazione dell’ultimo libro di Giovanni, questi racconta a Lidia l’episodio cui lei non da alcuna importanza. Si evince dai primi venti minuti che il loro è un rapporto freddo, inconsistente.
Dopo la cerimonia Lidia si allontana ed inizia un lungo cammino per le strade desolate di Milano (è sabato pomeriggio e siamo in estate). Ecco qui un’altra tipica situazione antonionana: pensiamo al vagabondaggio di Aldo ne “Il grido”, alle passeggiate di Vittoria ne “L’eclisse”, alla fuga di David Locke/Robertson in “Professione: reporter”. I suoi film sono spesso dei “road movie” ed è questo uno degli aspetti del suo cinema che ha esercitato forte influsso sull’ opera di Wim Wenders (alcuni titoli: “Paris Texas” e “Alice nelle città” che è quasi un rifacimento de “Il grido” ). Tornato a casa Giovanni non sembra preoccuparsi dell’assenza della moglie e quando lei gli telefonerà lui le risponderà con un laconico “ah! Sei tu!”. Lidia era tornata nel luogo in cui si erano incontrati ma Giovanni, che vi era giunto per ricondurla a casa, si mostra indifferente al timido entusiasmo da lei manifestato. Decidono (o meglio è lei che decide) di trascorrere la serata assieme in un night.
In seguito si recano ad una festa in villa organizzata da un industriale, Gherardini, che intende offrire a Giovanni un’opportunità di lavoro. Si apre così la seconda parte del film in cui i due si vedranno ben poco assieme. La descrizione della festa ha indotto taluni a parlare di “tocco felliniano”: sarà la presenza di Marcello Mastroianni (reduce dalla “Dolce vita”) e la collaborazione di Ennio Flaiano (che assieme a Tonino Guerra e al regista ha scritto senza ombra di dubbio la sceneggiatura ed i dialoghi più belli dell’opera di Antonioni), ma di Fellini c’è poco o niente. Sia Giovanni che Lidia avranno l’opportunità di tradirsi a vicenda (lui con la figlia di Gherardini, Valentina, impersonata da Monica Vitti, lei con un intellettuale) ma non lo faranno.
Verso l’alba la coppia si allontana dalla casa. Lidia afferma che non esiste più amore tra di loro mentre Giovanni lo nega. Lei gli legge una lettera scritta da Giovanni (ma lui non la ricorda) in cui le dichiara che con il tempo l’amore, la passione sarebbero svaniti lasciando il posto ad una triste abitudine (“…sentirti non mia ma addirittura una parte di me, una cosa che respira con me e che niente potrà distruggere se non la torbida indifferenza di un’abitudine che vedo come l’unica minaccia”).
L’ultima immagine è un abbraccio “appassionato” tra i due con cui Giovanni cerca (o crede) di smentire tutto quello che le aveva scritto. Lei non gli crederà.
Dicevamo all’inizio della forza visiva del film. La maestria di Antonioni, coadiuvata dall’eccellente fotografia in bianco e nero di Gianni Di Venanzo, potevano soltanto produrre ottime immagini. Bellissima la scena dell’incontro/scontro con la ninfomane su di uno sfondo bianco. Oppure le inquadrature sul pavimento a scacchi su cui Valentina fa scivolare il portacipria (si tratta di un gioco inventato da lei stessa). Pensiamo, infine, ai primi piani sul volto di Jeanne Moreau: il suo sguardo triste, le sue occhiaie, descrivono meglio di qualsiasi parola il suo stato d’animo, il suo (altra costante del cinema di Antonioni) fallimento che è anche il fallimento di Giovanni e degli altri protagonisti del film.
Con un ritmo senza dubbio più lento rispetto a “L’avventura”, “La notte” analizza in maniera maggiormente compiuta i personaggi ed offre una visione del mondo borghese lucida e disperata che ha ben pochi paragoni nel cinema italiano.
Qualche anno dopo Florestano Vancini con “Le stagioni del nostro amore” (1966) metterà in scena una critica contro la società moderna con un risultato tutt’altro che negativo ma non all’altezza delle intenzioni.
Blow-up (1966):
soggetto: M. Antonioni (da un racconto di Julio Cortazar) sceneggiatura: M. Antonioni, T. Guerra fotografia: Carlo Di Palma
musica: Herbert Hancock
interpreti: David Hemmings, Vanessa Redgrave, Sarah Miles, Veruska, Jane Birkin
“Blow up”, vincitore della Palma d’oro al Festival di Cannes del 1967 e grande successo commerciale, costituisce la prima opera del maestro ferrarese interamente realizzata all’estero e precisamente a Londra. La storia (ispirata ad un racconto dello scrittore argentino Cortazar, “La bava del diavolo) presenta le caratteristiche di un giallo che, come nel caso de “L’avventura” , resterà irrisolto. Il protagonista, Thomas, è un fotografo di professione. Uomo ricco (gira in Rolls Royce), con atteggiamenti fuori dal comune (impazzisce nel vedere un elica e decida di acquistarla), è completamente dedito al suo lavoro. Ha una moglie, ma di lei sappiamo soltanto che lo tradisce apertamente. Per completare un libro fotografico decide di realizzare alcune foto in un parco. Qui incontra una coppia: lei (Vanessa Redgrave) è giovane, lui potrebbe essere suo padre (nel racconto di Cortazar abbiamo un adolescente ed una donna matura). Terminato il suo lavoro la donna lo insegue e con aria preoccupata ed insistente gli chiede di consegnarle il rullino. Lui si rifiuta ma la invita a passare nel suo studio più tardi. Vi si presenterà e gli richiederà le foto. Thomas la ingannerà dandole un altro rullino. “Cosa diavolo c’è di tanto importante in quelle foto?” lui le domanda: ormai la curiosità è altissima e Thomas procederà personalmente a sviluppare le foto. La parte centrale del film descrive in maniera accurata il procedimento di sviluppo e vedrà Thomas trovarsi di fronte ad un enigma: dietro una siepe sembra scorgersi un uomo morto. Successivi ingrandimenti (la traduzione di “blow up” è “ingrandimento”) riveleranno l’esistenza di un omicidio (da dietro un’altra siepe si intravede un uomo con la pistola). Deciso a chiarire il mistero si reca nuovamente al parco dove avrà la conferma di quello che ha fotografato. Che fare? La ragazza è introvabile (gli aveva lasciato un numero di telefono falso). Pensa di rivolgersi ad un suo amico ma non gli sarà di aiuto. A rendere la vicenda ancora più misteriosa è il successivo furto delle foto. Ormai non resta che tornare al parco e fotografare il cadavere ma giuntovi la mattina successiva non lo troverà più. Nell’ultima scena Thomas assiste ad una partita di tennis dove dei ragazzi (che sembrano dei mimi) giocano senza palla e racchette. Il film si conclude con il protagonista che, sullo sfondo del prato, sparisce lasciando il posto alla scritta “fine”. Molte cose si potrebbero dire su “Blow up” e molto, infatti, è stato scritto. Innanzitutto è da sottolineare che l’attenzione del regista si concentra essenzialmente sulla vicenda più che sui personaggi. È un fatto nuovo soprattutto se pensiamo al fatto che da “Cronaca di un amore” sino al precedente “Deserto Rosso” Antonioni ci ha offerto una descrizione approfondita della psicologia dei protagonisti. Diverso il caso di “Blow up” dove sia Thomas, la moglie, la ragazza del parco e le altre figure minori sembrano corpi senza anima. Basta pensare ai comportamenti e soprattutto alle frasi del fotografo (interpretato da un David Hemmings all’inizio della sua carriera): “veramente non è mia moglie ma abbiamo dei figli. No niente figli. Non è bella ma si sta bene con lei. No si sta male. Ed è per questo che non ci sto” Sono frequenti nel cinema di Antonioni (soprattutto da quando ha iniziato la collaborazione con Tonino Guerra) dialoghi surreali, ai limiti dell’assurdo ma qui sicuramente si raggiunge il vertice. Altra situazione paradossale: Thomas a casa trova la moglie a letto con un suo amico. Poco dopo lei lo raggiunge allo studio e gli domanda: “prima volevi qualcosa da me?” Dicevamo quindi dell’importanza data alla storia, ovverosia del messaggio che il regista vuole trasmetterci. Sintetizzando possiamo dire che il film è una dimostrazione della differenza che esiste tra la realtà, che noi vediamo con i nostri occhi, e la rappresentazione della realtà, affidata alla fotografia, al cinema ed anche alla pittura. Assieme a “Professione: reporter” (dove questa tematica verrà meglio approfondita), “Blow up” costituisce il film più cinematografico di Antonioni, un film sul ruolo stesso del (suo) cinema che non è tanto quello di documentare le cose, quanto quello di fornirne un’interpretazione personale. Caso curioso che Antonioni abbia iniziato la sua attività realizzando documentari, ma è anche vero che, a differenza di altri suoi colleghi (Visconti e Rossellini in primis) ha saltato la fase del “Neorealismo” per dare vita ad un cinema completamente differente. Grande fascino ha esercitato “Blow up” nel mondo del cinema. Diversi sono i registi che vi hanno tratto ispirazione. Basti pensare a “Frammenti di paura” (1970) di Richard C. Sarafian, interpretato sempre da Hemmings, o a “Blow out” (1981) di Brian De Palma. Ma più di ogni altro è stato Dario Argento a risentire dell’influsso del film di Antonioni con “Profondo rosso” (1975). Non è un caso che la scelta del protagonista sia ricaduta su David Hemmings che qui interpreta un musicista che assiste personalmente ad un omicidio. Nella casa in cui si svolge il delitto ricorda di aver visto un quadro che poco dopo non c’era più (in realtà era uno specchio su cui era riflesso il volto dell’assassino). Anche qui si assiste ad una contrapposizione tra ciò che si vede e ciò che si crede di aver visto (questa è la teoria espressa dall’amico del musicista). Dopo “Blow up” Antonioni continuerà a girare all’estero. Solo nel 1981 riprende (con “Il mistero di Oberwald”) a lavorare in patria.
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