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L’ospite inatteso

(di L’Irriverente)
 
Dopo la scomparsa della moglie, un professore universitario, Walter Vale, conduce una vita monotona in uno stato di rassegnazione. Quando, per lavoro, è costretto a tornare al suo appartamento nella città di New York, scopre che questo è occupato da una coppia di fidanzati che, ingannati da qualcuno, hanno affittato l’abitazione. Il giovane, Tarek, è un siriano che suona in un gruppo jazz, la ragazza è africana e manifattura gioielli. Per paura di essere denunciati, non essendo in regola col permesso di soggiorno, vogliono lasciare immediatamente l’appartamento, ma Walter gli va incontro ospitandoli finché non troveranno un nuovo posto dove andare. Col passare del tempo, la vitalità di Tarek e la sua musica conquistano il demotivato professore e tra i due nasce una sincera amicizia. Walter prenderà a cuore la situazione della giovane coppia per cercare di evitargli l'espulsione dal paese.

Il film è un dolce walzer che gira intorno al protagonista. Ma la vera protagonista della storia è forse la musica: all’inizio rappresenta l’unico mezzo che consente a Walter (un bravissimo Richard Jenkins) di mantenere un legame con la moglie scomparsa attraverso un pianoforte che non riuscirà mai a suonare decentemente. Con l’evolversi della storia sarà la musica a farlo destare dal torpore in cui è caduto e a farlo lottare per quello in cui crede. Ma sarà sempre un ritmo lento, scandito dal metronomo della burocrazia, a tentare di abbattere la vitalità della sua insistente sinfonia.
Forse, alla fine del film, i sensi percepiranno che il lutto di cui si parla non è riferito solo alla dipartita della moglie del protagonista, ma ad un intero modo di concepire l’immigrazione, ormai non più condiviso da tutti.
 
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(di Antonegò)
 

Sembra davvero che l’America, insieme al crollo delle Torri gemelle, abbia subito il crollo di quegli ideali e valori fondanti che da sempre hanno costituito il melting pot e la ricchezza di un Paese, nato dall’unione di culture disparate.

Questo lascia trasparire l’opera seconda di Thomas McCarthy, già regista di “The station agent” e attore in “Lettere da Iwo Jima”, “Syriana, Good night, and good luck” e “Ti presento i miei”. Il film ha riscosso molti successi nei festival internazionali, vincendo il premio del pubblico e della sceneggiatura al Sundance Festival, il BAFTA (British Academy of Film and Television Arts) per la migliore sceneggiatura e due Independent Spirit Awar, nonché riconoscimenti a San Sebastian, Stoccolma, Città del Messico e Aspen. In realtà la regia manca un po’ di personalità, la storia, senza troppi acuti, subisce una dilatazione eccessiva, e il film risulta meritorio esclusivamente per la tematica affrontata e per le interpretazioni di Richard Jenkins, già visto quest’anno in Burn after reading, e Hiam Abbas, attualmente al cinema con Il giardino di limoni.Bravissimo soprattutto Jenkins, nel ruolo di uno stanco e inaridito professore universitario, che finge di essere occupato e che ritorna a vivere e provare emozioni, quando nella sua vita irrompono due extracomunitari illegali. Quando un attore riesce con uno sguardo, con impercettibili movimenti del viso a trasmettere emozioni, allora si capisce di avere di fronte un grande attore e Jenkins è senz’altro un ottimo caratterista che merita attenzione.

E forse, il suo grido disperato dinanzi al vetro antiproiettili della prigione di massima sicurezza mascherata in un edificio qualsiasi della periferia americana, è il grido di sdegno di una parte dell’America che non è disposta a sacrificare la ricchezza della diversità e l’amore per la libertà sull’altare di uno stato di polizia che propugna tolleranza zero e sicurezza, arrogandosi poi il diritto di esportare una democrazia che non abita più qui. La miopia di una politica errata, figlia di una violenza subita che non è stata in grado di tramutarsi in altro che in paura, è magnificamente raffigurata dall’ottusità delle guardie carcerarie che non sanno dare informazioni e paiono sempre più automi senz’anima, grigi simulacri di una tragica realtà il cui contraltare è la solare e festosa solidarietà degli immigrati che si riunisco nel parco, per suonare e cantare.

Alla fine, il ritmo ossessivo del tamburo nella metro, pare essere il battito di un cuore che non si rassegna,  e non si vergogna di battere e battere e battere.

 
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