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Nelle terre selvagge -Into the wild

(di L’Irriverente)
 

Difficile dare un giudizio ad un film scindendo la realizzazione tecnica e la bravura artistica dalla storia. Dal punto di vista della messa in scena, “Into the wild” è un film impeccabile trattato dal bravissimo Sean Penn con intelligenza e raccontato con un susseguirsi di flashback che si integrano alla storia presente fino a ricongiungersi con essa. Anche il cast fa bene il suo dovere e il bravo Emile Hirsch, già visto in “Alpha Dog”  e altri ruoli secondari, interpreta con indiscussa bravura il ruolo principale del ragazzo arrabbiato con il mondo materiale che lo circonda.

Personalmente, però, ho avuto momenti di puro movimento di stomaco dovuto al nervoso seguendo la vicenda di questo giovane, che reputo un finto “eroe”, uno da cui sembra si debba imparare, ma con cui, in realtà, si può condividere solo un’idea molto generica.

Concordo con l’opinione della nostra Penelope Pit-Stop circa il fatto che “il finale sconfessa il pensiero che viene portato avanti per tutto il film e forse il messaggio è al contrario”. Ma più che di messaggio al contrario, che secondo me rimane uguale, contesterei non il pensiero portato avanti, ma il modo in cui viene attuato.

Se per molti un ragazzo che si comporta come il protagonista, un ribelle, uno spirito libero che rifiuta una società consumistica può sembrare un modello da imitare, per me è solo un ragazzetto benestante con velleità da James Dean che prende il coraggio di affrontare una situazione solo perché immerso in uno status che glielo consente; se fosse stato un povero impiegato con il compito di mantenere una famiglia credo che un po’ più di maturità avrebbe prevalso sull’incoscienza. E’ facile privarsi dell’automobile e dei tanti soldi quando si hanno e soprattutto non sono i propri per cui non c’è neanche interesse a mantenerli se guadagnati dopo un duro lavoro.
Inoltre la totale disorganizzazione nel voler raggiungere la vera natura delle cose, lo porta ad andare sempre a ricasco di altri “viaggiatori” più organizzati di lui fino a trovarsi totalmente da solo dove, infatti, non sa gestire la propria vita selvaggia nonostante i consigli di coloro che ne sanno di più (ad esempio togliere la pelle alla preda, uccisa con un comodo fucile dotato di mirino di precisione...).

Più il film va avanti e più mi tornano in mente le parole senza mezzi termini di Alberto Sordi quando, ne “I nuovi mostri”, racconta in auto, al suo passeggero malconcio, di quando lui abbia detto “basta! Mi faccio la barca e vado a fare il navigatore solitario! Solo! A contatto con la natura più pura.... ed è lì che ti accorgi quanto sei str**** a fare queste imprese che non servono a un c****”.

Alla fine del film mi chiedo che senso abbia tutta la pellicola visto che il messaggio sembra non arrivare nel modo corretto e se ne intuiscono solo le intenzioni. Allora apprendo che l’Alaska non è più un simbolo, che l’impresa non è una metafora, ma semplicemente la rappresentazione di una storia vera!! Tutte le congetture sugli ideali di una nuova generazione si riducono a semplici insofferenze di un ragazzo realmente esistito, anche se sicuramente riscontrabili in molti.

Tornando al mio personale giudizio, considerando che le sensazioni che rimangono dentro dipendono dall’alchimia di tutti gli elementi, storia compresa, il lato artistico non riesce a farmi giustificare la sufficienza.
Peccato... perché avrei preferito la semplice “ispirazione” alla storia vera per trarne qualcosa di più costruttivo.

 
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33%
 
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(di Antonegò)
 
Into the wild è un film poetico che conferma la crescita di un attore che prima è diventato un grande attore e poi un buon regista. Sean Penn prende la storia folle di Christopher McCandless, narrata nell’omonimo romanzo di Jon Krakauer, e ne fa un film capace di restituire, senza facili moralismi, l’essenza più pura di una fuga, che sino alla fine lascia un dubbio: fuga verso la libertà o fuga dalla realtà, dal passato che fa male e dai rapporti umani che più sono stretti e più lasciano il segno? Fuga per arrivare dove? Alexander Supertramp, così decide di chiamarsi il protagonista, nel tentativo disperato di scrollarsi di dosso l’ultima parvenza di appartenenza alla classica famiglia dell’upper class americana, non sopporta più la falsità, l’ipocrisia, il consumismo di due genitori narcisisti e anaffettivi, che credono che l’amore e la rispettabilità si misurino in oggetti e hanno dedicato tutta la vita al perseguimento del successo, salvo poi ritrovarsi inariditi dalla vacuità e vanità dello stesso, una volta raggiunto.
Alexander Supertramp è un giovane brillante e di belle speranze, un giovane arrabbiato, un giovane spaventato e sognatore che crede fermamente che “se vuoi qualcosa nella vita, datti da fare e prendila!”. E allora fugge, fugge nelle terre selvagge, sperando di ritrovare, nel contatto con la natura, la vera natura delle cose, l’essenza e la purezza della vita, lontano da una società che ha fallito, che lo ha deluso, alla ricerca del primitivo sopravvivere dell’uomo, lontano da quel superfluo che Oscar Wilde ci ha insegnato invece essere necessario. Ma la civiltà dalla quale cerca di fuggire, in fondo, fa parte di lui, lo segue, sotto forma di aerei che dall’alto gli ricordano che l’uomo primitivo è ormai un ricordo lontano e la natura, ch’è sempre stata matrigna, non lo riconosce più o, forse, quell’uomo è sempre stato troppo narcisista ed antropocentricamente egocentrico, per non pensare che quella che appare come ostilità nei suoi confronti, altro non è che la lotta imperitura per la sopravvivenza di qualunque essere vivente.
E la natura non perdona un animale che decide di restare solo, in balia dei pericoli, che siano i percoli di una natura troppo selvaggia per riabituarsi ad essa, o che siano i pericoli insiti nella natura a volte insensatamente malvagia dell’uomo. Interessante la dialettica tra le insidie di una natura tanto apparentemente bella quanto in realtà ostile e feroce e una società umana in cui quella stessa natura basata sulla legge del più forte e sulle dinamiche di potere, non meno feroce, si cela dietro una ipocrita maschera di giustizia e civiltà, come un settecentesco nobile imparruccato che cerca di mascherare col profumo, la puzza di un corpo incrostato e mai lavato.
E allora, forse, in questo panorama bello solo in fotografia, l’unica nota positiva emerge dai rapporti umani, quei rapporti umani capaci di fare un male assordante, ma dei quali, tutto sommato, non possiamo fare a meno, quei rapporti umani la cui desiderabilità si condensa nell’occhio lucido di un vecchio che vorrebbe adottare un futuro, negli occhi azzurri di una sedicenne che, come un bocciolo, aspetta di essere colta, negli occhi di una madre che ha perso un figlio e non è più in grado di veder altro, negli occhi disperati di un padre ricco, che si credeva un dio capace di sopprimere il Natale e invece capisce di essere solo un povero fallito. Forse non si può fuggire, forse non si può fuggire da se stessi, dalle terre selvagge che ci portiamo dentro, forse ogni giorno in più che camminiamo su questa terra, siamo solo dei sopravvissuti. Ma forse, amando e perdonando, possiamo sopravvivere a noi stessi.Cast eccezionale, formato da Emile Hirsch, Marcia Gay Harden, William Hurt, Jena Malone, Brian Dierker, Catherine Keener, Vince Vaughn, Kristen Stewart, Hal Holbrook. Colonna Sonora perfetta di Eddie Vadder. Forse il tutto meritava più di una sola candidatura all’Oscar per il montaggio.
 
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(di Penelope Pit-Stop)
 

Lascio qualche impressione...

Scenari naturali incantevoli a dir poco... Da togliere il fiato...

Colonna sonora strepitosamente pensata per il film, parte integrante della storia... tant'è vero che molte volte le parole vengono tradotte.

Intenso.

Un film sulla libertà, sulla strada da scegliere, su come vivere la nostra vita, sulla società in cui viviamo e le sue contraddizioni, sulla ricerca di se stessi e della verità.

L'Alaska è un non luogo, è un simbolo, non è la meta, ma la ricerca... la meta è un'altra, ma quando arriva la consapevolezza...
Quando la ricerca della verità arriva a compimento...
allora, forse ti accorgi che hai sbagliato tutto.
Comprendi, ma forse è troppo tardi... Forse è un risultato inutile?
O comunque vale la pena? Anche solo per un istante di verità...?

Secondo me... il finale sconfessa il pensiero che viene portato avanti per tutto il film e, forse, il messaggio è al contrario...

Per il resto, posso dire che è un film ruvido e al tempo stesso delicato, incantevole ma spietato... Un bel pugno nello stomaco...
Ammetto occhi lucidi e magone finale... Ma, comunque, mi è piaciuto...

Diciamo che è un film di cui poi hai voglia di parlare...

Ah, dimenticavo, attore protagonista bravissimo, ma, secondo me, troppo bello per questa parte...

A volte, la bellezza è uno svantaggio... ;-)

 
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(di Edna)
 

hirsh“Happiness is real only when shared” (into the wild)

“Sai perché vivo sulle montagne? Per non incontraretipi come te!” (Il cacciatore solitario)

Bella l’idea, non originale ma vera: il giovane Christopher McCandless decide di ri-nascere Alexander Supertramp, lasciarsi alle spalle tutto (anche troppo) tranne Tolstoj, London e pochi altri; al posto dei genitori americanissimamente "per bene” una coppia di hippy, contadini bislacchi al posto dei professori universitari, un nonno tanto solo, squallide periferie americane, … per raggiungere l’Alaska (1904). Quante volte prima digirare il film il vecchio Sean si sarà visto “il cacciatore solitario” di Harald Reinl?

Tante, e saggamente non ne ha imitato i dialoghi (“bello! ma si racconta che Sputafuoco sappia fare ben altre cose…”) anzi, li ha proprio evitati; ha esaltato i magnifici paesaggi dell’Alaska, dei canyon enon solo, con lo stupore del granchio di fronte a un’altissima onda. E come lui Alexander, per fare poi la fine delle scimmie di Kubrick davanti al monolite, quando si imbatte in un vecchio pulmino Volkswagen abbandonato in mezzo allanatura (il “pulmino magico”). Torna stanziale, comodo (con stufa e doccia) e consumista (dalla caccia agli scoiattoli ad un’alce intera), insomma si dà la zappa sui piedi; però ha capito che era una zappa, che c’erano voluti secoli per inventarla, e che come tutte le cose belle è stata inventata per amore diqualcuno o del prossimo, fate voi… (anche gli areoplani, quasi un miraggio).

Troppe: ha trovato come protagonista Emile Hirsch, la copia giovanedi Raimund Harmstorf, che però non morde il sigaro e, sepermettete, non ha fatto né “Uno sceriffo extraterrestre… poco extra e molto terrestre”, né “Lo chiamavano Bulldozer”…raimund

Vietato dopo lo spettacolo delle 20.00 per “pericolopennica”.

 
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