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Il curioso caso di Benjamin Button

(di Antonegò)
 

Fincher è senz’altro un regista talentuoso. Il suo esordio, “Alien 3”, pur non essendo tra i migliori della fortunata saga, aveva comunque il pregio di possedere un’ambientazione originale e interessante, “Seven” è stato un grande successo e “The game” un film curioso. Poi è arrivato il grandissimo e geniale “Fight club”, seguito dal mezzo flop “Panic room” e “Zodiac”, film teso, coinvolgente e pieno di suspence. E arriviamo così a “Il curioso caso di Benjamin Button”, che ha fatto incetta di nominations agli Oscar, piazzandosi bene tra i bookmakers, per la vittoria finale. Insomma, la carriera di questo regista nato nel Colorado, ma cresciuto in California, è senz’altro da rispettare. Il film, che vincerà senz’altro almeno l’Oscar per il miglior trucco (impressionante non solo l’invecchiamento di Brad Pitt, ma anche il suo ringiovanimento!), diciamocelo, non è affatto quel capolavoro osannato dalla critica, ma è senz’altro un buon film. Se da un lato, infatti, pesa un po’ il tipico marchio hollywoodiano di film di facili sentimentalismi e personaggi forzatamemnte originaloidi che, per certi aspetti ricorda la furbizia barocca di Baricco, dall’altro c’è da dire che Fitzegarld, autore dalla cui novella è tratto il film, non è Baricco e la sua impronta si nota. I caratteristi americani si confermano di ottima qualità, più che semplici cornici nelle quali si incastonano le star. La ostentata e fastidiosa bellezza di Brad Pitt, quasi maschera la sua bravura, anche se per metà film è vecchio e rugoso, ma il fascino seducente di Cate Blanchett non ha nulla da invidiargli e dubito che molti uomini sarebbero riusciti a resisterle, quando danza sinuosa in riva al fiume, nella nebbiolina sognante di New Orleans.

Coloro ai quali il film non è piaciuto, lamentano una eccessiva lunghezza e lentezza del film, che certo non possono essere parametri negativi di giudizio. Il film, invece, scorre abbastanza fluido, pur nelle sue abbondanti 2 ore  e 40, e si resta catturati dalla curiosa storia di questo bambino nato vecchio, simbolo della diversità, ma anche metafora di una vita chem sebbene scorra al contrario, trova la forza per trovare il suo corso, per sfiorare e assaporare la normalità e per vivere con intensità se stessa. E se la forza delle pulsioni adolescenti trova il modo di ingannare il tempo, quello stesso tempo riprende il sopravvento, sconfiggendo l’amore. Perché se è vero che da vecchi si torna bambini, vero è anche che il vecchio, ringiovanendo, compie un percorso a ritroso che lo porterà a disimparare e dimenticare, come se la regressione infantile equivalesse all’alzheimer senile. Un po’ come quel tremendo proverbio musulmano secondo cui il destino ci aspetta lungo la strada che avevamo intrapreso per evitarlo…

Ma chissà, se è vero che l’amore è compiuto solo quando è vissuto, forse l’unico modo che ha di sfuggire al suo compimento, che è spesso l’inizio del suo esaurirsi, l’unico modo che ha di eternarsi e di ingannare il tempo è nel sacrificio di sé, nella rinuncia di tutto, per l’altro. E allora possiamo finire tra sussurri e grida, nel dolore e nell’angoscia, oppure senza ricordi, senza neanche sapere che qualcuno ci ha tenuto in braccio. Ma la vita pare funzioni anche così e l’unico modo che abbiamo di viverla è essere pienamente noi stessi e l’unico modo che abbiamo di perpetuarla è seguire le tracce di quell’amore che siamo stati in grado di dare e in grado di ricevere da coloro che ci hanno preceduto e per coloro che seguiranno. Insomma, il film è una riflessione sul tempo, sulla memoria, sull’amore, sulla vecchiaia sulla vita e sulla morte, sulle relazioni umane e sugli umani affanni, spazzati via dal tempo, come foglie secche dal vento, come un’intera città da un tornado. Un film sulla ineluttabilità del tutto, ma anche sulla necessità di vivere pienamente quel tutto, ancorché ineluttabile. Perché se anche non riusciamo a trovare spiegazioni per l’amore, per la vita e per la morte, arriviamo a capire che essi giustificano con la loro più pura essenza la loro stessa esistenza.

Insomma, pur con le sue pecche, il film riesce a dare tanti spunti di riflessione. E non è poco di questi tempi.

Una piacevole sorpresa: si rivede dopo anni, dopo il flop di “Sabrina” (Hollywood non perdona mai i losers) la bellissima e brava Julia Ormond.

 
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(di Technino)
 

Benjamin Button (Brad Pitt) è un bimbo in fasce ma ha la salute e l’aspetto fisico di un novantenne: dovrebbe morire il giorno dopo e invece più passa il tempo più ringiovanisce.

Detto dell’espediente che ha attirato piu’ di uno spettatore al cinema (tra cui chi vi scrive), occorre dire subito con brutale franchezza che il film e’ di una lentezza esasperante!

E la lentezza e’ accentuata dalla scelta del pessimo regista David Fincher (un nome da ricordare..) di far raccontare la storia di Benjamin, per lunghi periodi, da  una decrepita e morente Kate Blanchett che, ovviamente, ha una voce resa pressocche’ incomprensibile dalla malattia e dalla vecchiaia. Che spreco per una grande attrice come lei... 

In quasi 3 ore non si vive un’emozione, si assiste con noia al succedersi degli eventi sperando che arrivi l'agognata fine! Il dialogo non ha nemmeno la brillantezza necessaria a tener desto almeno l’interesse intellettivo  dello spettatore (visto che fallisce sul piano emotivo): banale e senza senso, accompagna il film verso un finale annunciato e, almeno da chi vi scrive, atteso con gioia.

Ci si domanda: ma come puo’ un lavoro di questo tipo essere candidato ad una moltitudine di Oscar, tra cui quello del miglior film, migliore regia e migliore sceneggiatura?? Ormai l’Oscar e’ divenuto incomprensibile, preso in un vortice di snobismo culturale che ha fatto dimenticare agli “accademici” che assegnano le nominations (ormai in minuscolo..) che il film non e’ un libro da leggere e, se manca assolutamente di ritmo e non riesce a suscitare emozione, e’ un NON FILM. Da evitare come la peste.
 
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