“Sono un pezzo di carne maciullata”, ma questa carne ha ancora un’anima in grado di toccare quella della figlia e, con lei, la nostra, perché nemmeno un pezzo di carne merita di morire da solo.
Mickey Rourke è strepitoso, toccante, sfatto, relitto degli anni ottanta giunto fino a noi tra mille battaglie che hanno lasciato il segno sul personaggio, come sull’attore che lo impersona. Una maschera dolente e morente, un uomo che rinuncia anche alla sua dignità, ma poi la riprende, da combattente quale é. La storia diretta magistralmente dal talentuoso Darren Aronofsky, che dopo opere più o meno riuscite, centra il film della maturazione, non è una storia nuova, chiariamoci. Però, il fascino esercitato dal loser è magnetico e le interpretazioni magistrali del cast, fanno chiudere un occhio sui luoghi comuni del genere e le sbavature di regia che, ogni tanto perde qualche colpo.
Ma scene struggenti, come quella in cui Rourke e la figlia si rincontrano, passeggiando su un lungomare d’inverno, danzando in una sala da ballo fatiscente alla ricerca del ricordo sbiadito di un sentimento svanito troppo in fretta e quando lei si riallinea a lui, prendendolo teneramente sotto braccio, beh, scene come queste, ci riconciliano col Cinema. Scene come quella in cui Rourke e la splendida Marisa Tomei si incontrano fuori dal locale di lap dance e si scoprono veri, autentici e spaventati dalla vita vera, quella che esce dal nostro controllo. Perché anche sul peggiore dei ring del sottobosco losco in cui si svolgono incontri tra vecchie glorie, tra sparapunti e mazze chiodate, tra vetrate e gambe finte, circondati da filo spinato e folla vociante che grida perché il tuo corpo sanguini, ci sono regole e c’è rispetto tra chi lotta, molto più di quanto ce ne siano fuori da quel malfamato ring. Perché nel mondo i colpi fanno più male e a sanguinare è l’anima.
E sorridiamo, quando Mickey Rourke e Marisa Tomei scelgono il regalo per la figlia di lui e ci arrabbiamo, quando tutto va a puttane e soffriamo e speriamo che il lottatore non salga sul ring, pur sapendo che il ring è tutta la sua vita e la speranza e la redenzione non possono esistere per lui al di fuori del ring, ma unicamente in mezzo alla folla che lo acclama e che sola ha il diritto di decretare quando dovrà smettere di combattere. E così, noi spettatori ci facciamo folla urlante e gridiamo che il lottatore non smetta di lottare e di proseguire uno spettacolo che deve sempre continuare, nelle luci spente di una sala in cui i sogni e le malinconie di una vita sfumano come una dissolvenza, come un finale che forse conosciamo già, ma che si ferma un attimo prima, per continuare a farci sognare…
Non avendo visto ancora Milk, un po’ mi freno. Ma forse no. Grido allo scandalo di un Oscar mancato, l’ennesimo. E facciamo anche due, vista la splendida canzone che il Boss canta per noi, alla fine del film.