Cominciamo con un aneddoto divertente. Qualche sera fa, vado al cinema e mentre aspetto il mio turno alla biglietteria, un ragazzo si volta agli amici e fa:”Quanti anticristi? Ci dia quattro anticristi”. Ebbene, se avete sorriso buon per voi. Perché d’ora innanzi sarà pianto e stridore di denti. Lasciate ogni speranza oh voi che state per leggere.
La prima legge di Techino sulla critica cinematografica recita: “Il film è bello se lo rivedresti”. Pur non condividendo totalmente questo pur dignitosissimo criterio valutativo, devo ammettere che passeranno parecchi lustri, prima che i miei occhi tornino a posarsi su questo appassito fleur du mal nato dalla mente più che malata di Lars Von Trier. Anche i geni, qualche volta esagerano e stavolta l’amato provocatore, il nordico cantore dell’eccesso, ha tracimato.
Senza dubbio il buon vecchio Lars si sarà come sempre divertito a leggere le critiche alla sua opera, a vedere pubblici spaccati in due, fischiare e ridere gli uni e applaudire gli altri. Ed anche io mi sono divertito a leggere critiche i cui autori deridevano i colleghi, rei di non aver capito il film e i suoi infiniti riferimenti e referenti dotti, oppure di aver capito troppo, andando ultra auctoris voluntates. Insomma la vis provocatoria c’è, come sempre. Così come c’è la maestria registica, coadiuvata da una eccellente fotografia e dalla computer grafica. Si pensi agli eccessi barocchi dell’incipit in bianco e nero, con l’aria tratta dal Rinaldo di Haendel a mo’ di inquietante contrappunto musicale. Ma se in “Idioterne” la provocazione rischiava di essere fine a se stessa, qui, la provocazione appare essere fine a lui stesso. Infatti Antichrist è senza dubbio il film più personale di Von Trier, quello in cui più di ogni altro si mette a nudo, scarnifica se stesso e le sue fobie, le sue manie, alla ricerca dell’anima più nera dei suoi incubi più atroci.
Si è detto molto sulla autoreferenzialità di questo lavoro cinematografico, lavoro assai duro soprattutto per i due bravissimi protagonisti, unici attori di questa ottava fatica di Ercole, che è valsa una meritata palma d’oro alla vessatissima Charlotte Gainsbourg. Si è detto che sia stata terapeutica, per il regista, che gli abbia permesso di uscire dalla sua tremenda depressione. Si è anche scherzato sul fatto che lo psicanalista di Von Trier abbia vietato ai suoi pazienti di vedere questo film, per non perdere clienti…! Certo, da questa sorta di tabe cinematografica traspaiono chiare ed evidenti la neanche troppo latente misoginia del regista, il suo rapporto difficile con la madre, la sua nichilistica paura del caos e dell’horror vacui. La donna-strega assurge ad archetipo del male satanico incarnato, celando dietro un’apparente fragilità, tutta la subdola forza scaturente dalla sua superiorità sessocratica, condannando alla fallacia la boriosa fallocrazia di un uomo vittima inconsapevole di quel muliebre mistero che sempre gli sfuggirà e dal quale, suo malgrado, dovrà fuggire (l’eterno codice binario attrazione-repulsione e ginolatria-ginofobia). Seguendo questa chiave di lettura, il film si presenta come la versione horror delle bergmaniane Scene da un matrimonio, il cui disfacimento passa attraverso l’eco postmoderna delle pornohorrorifiche atmosfere cui i sottogeneri e i de-generi cinematografici contemporanei, soprattutto di matrice orientale stile sevizia-movie, ci hanno abituato, ma, fortunatamente, non ancora assuefatto.
Anche in quest’ottica, la gratuità di certe scene disgustose e nauseabonde, che sfidano lo spettatore, costringendolo a fatiche improbe per tenere aperti gli occhi e per non chiudere le gambe, richiama alla mente parole come evitabile ed eccessivo. Ma, forse, è in quest’ottica che occorre mettere a fuoco la terribile automutilazione in primo piano cui si sottopone la protagonista, quasi fosse lo sfregio carnoso e vivente della Origine del mondo di Courbet. Perché il mondo dipinto da Von Trier è un mondo governato dal caos, da una Natura matrigna e selvaggia, crudele come neanche Leopardi l’ha immaginata, nei suoi incubi più vividi, una natura buia e opprimente, che spaventa e che piange inquietanti ghiande, come fossero lacrime. E la maestria o la patologia (a seconda dei punti di vista) del regista sta nel riuscire a manipolare la realtà filmica e visiva, tramutando perfino quello che potrebbe essere un paesaggio bucolico agreste e ridente, nel più torvo e angosciante dei luoghi. Ed è così che l’“Eden” in cui torna la coppia per guarire, si rivela una selva selvaggia e aspra e forte nella quale smarrire se stessa e il suo cammino. Ma forse occorre davvero affrontare i propri fantasmi e la realtà menzognera e feroce, per guarire da un male che non si sapeva di avere, mentre si credeva che il male fosse un altro, in una sorta di antitetica e malsana serendipità nosologica e specularmente alteregoica.
In fondo nulla è più spaventoso di una coppia che marcisce, di un amore che svanisce, palesando una menzogna troppo a lungo sopita. Perché il sesso può essere il bel tappeto sotto cui nascondere la triste essenza di una coppia vista come somma di due egocentrismi costretti a interpretare ruoli opprimenti e soffocanti. Da un lato la donna, falsa e falsamente fragile che fa del pene maschile il suo inane scettro. Dall’altro l’uomo, talmente pieno di sé ed accecato dalla sua superbia, da credere di poter essere il centro della coppia, la risoluzione di tutti i problemi, talmente sciocco da credersi forte, solo perché la donna sembra debole. Entrambi a loro modo sconfitti: costretta l’una a palesare la sua isterica follia, la sua brama di potere, il suo senso del possesso, costretto l’altro a fare i conti con una realtà che neanche immaginava, obnubilato dalla sua debolezza sessuale e dalle sue manie di onnipotenza, costretto a vagare solo, segnato per sempre, lui che voleva salvare la sua donna ed essere l’eroe e che ora che tutto il suo mondo costruito a fatica è crollato, si trova incapace di dare un volto a qualsiasi altra donna. E chissà, forse aveva ragione Fassbinder, forse l’amore è davvero più freddo della morte e i rapporti di coppia, altro non sono che squallidi rapporti di potere.
Ma occorre passare attraverso un inferno boscheriano o baconiano per ritrovarsi liberi, ma soli, vivi o forse morti, portati per mano in un criptico finale in cui, probabilmente, non è solo l’Almirena haendeliana a voler piangere.
Il pregio di Von Trier resta quello di non lasciare mai indifferenti, di costringerti a metabolizzare un suo film per intere settimane successive alla sua visione. Da Vontrieriano convinto, pur sapendo quel che mi aspetta, tornando indietro nel tempo, andrei a rivedere quest’opera, necessaria, se osservata dal punto di vista ossessivo compulsivo del maniacale fan che pretende di avere una visione d’insieme completa dell’artista amato, ma assolutamente evitabile e da evitare per tutto il resto della umana platea.
Von Trier gode senz’altro nel leggere le sue pagelle cinematografiche mai macchiate da voti intermedi, ma popolate invece da zeri e uno oppure da otto e nove. Pertanto, nella speranza che il tempo renda a questo film gli stessi servigi resi al vino, non mi resta che infliggergli la punizione più atroce, marchiando la sua opera dell’affronto ignominioso di vedersi giudicata con un mediocre sei e mezzo.