Puro melodramma in stile Almodòvar, a tinte rosse e vivaci.
“I film vanno sempre finiti, anche se alla cieca”. Un inno d’amore al cinema, una dichiarazione che solo il più passionale dei registi europei poteva concepire. Per cui, chiudiamo gli occhi del critico acerbo e cinico che noterebbe solo la banalità di una vicenda trita e ritrita e apriamoci, invece, alla maestria del regista castigliano che, ispirato dalla sua musa – feticcio Penelope Cruz, riesce sempre ad affascinarci e ammaliarci, da quando ha raggiunto la sua maturità artistica.
Un capitolo a parte merita la Cruz, scintillante, seducente, volgare, sciatta, scintillante, forte, energica, debole, indifesa, kitsch, sexy, prototipo di donna vera, capace di far perdere la testa a qualunque uomo sedicente tale.
Almodòvar si diverte a infarcire la sua opera di riferimenti e citazioni, riuscendo anche nell’impresa di far vivere sullo schermo la coppia di amanti di Magritte.
Un film sulla potenza dell’immagine del visivo, di ciò che prima di essere toccato è visto e che tocca proprio perché è visto, che sia arte, voyeurismo, che sia realtà immaginaria o finzione visiva che attrae, avvinghia l’occhio allo schermo, anche quando schernisce, umilia. Purché sia cinema. Purché sia amore, in tutte le sue forme e ossessioni. Foss’anche cieco. Perché certe immagini ce le portiamo dentro, mentre altre, irrimediabilmente, ci sfuggono tra le dita, come sabbia e, alla fine, la vita è solo una dissolvenza di momenti, un’immagine sfocata che vorremmo toccare con le mani o, forse, il sapore di un bacio di amanti distratti che diviene eterno, un’immagine rubata di due amanti, un particolare che non noti, finché non lo metti a fuoco. Puoi scrivere qualunque cosa, ma alla fine è sempre la vita che ti segna.
Insomma Almodòvar puro. Da vedere. Da amare. Prendere o lasciare. Purché con passione.