“E d’ora in poi, il silenzio. Il silenzio e basta. Pensai che l’unico modo di liberarmi del dolore fosse liberarmi del mondo”. È questo l’incipit dolente e tremebondo di questa opera prima, a tratti ingenua e a tratti ispirata della video artista Shirin Neshat, vincitrice del leone alla regia al festival di Venezia. La Neshat, è a suo agio con le immagini, alcune delle quali hanno un impatto tanto più violento, quanto più pura e pulita è la fotografia. Una prostituta anoressica si strofina a sangue, cercando di lavare una sporcizia incolpevole che mai andrà via e cerca la libertà in un’oasi, perché la natura per quanto selvaggia e scapigliata, appare meno feroce dell’uomo e cela nel suo humus verità inconfessabili. Una donna cerca la libertà nella coscienza politica, tarpata da un fratello integralista e ottuso. La moglie di un generale che ormai canta solo quando non è ascoltata, cerca la libertà lontano dal marito, in un passato che non può tornare. Ma in questo Iran degli anni ’50, la libertà sembra un’utopia, gli intellettuali sono dei ricchi dalla mente solo apparentemente aperta che null’altro possono fare, che veder mangiare i militari in una scena dagli echi bunueliani.
Il cinema di impegno civile è faticoso, ma necessario, quasi quanto la parola necessario accostata all’impegno civile. E chissà, laddove ci si rende conto che la morte è semplice, ma immaginarla è complicato, non si può fare a meno che perseguire la libertà, anche e soprattutto rendendoci conto ch’essa non era lì dove la cercavamo, essa non era in un impegno civile che ti lascia solo il corpo insanguinato di un soldato senza colpe tra le mani, essa non era nell’amore per un uomo piccolo e ottuso, essa non era nell’amante raffinato che non abbiamo atteso. Forse la libertà per la donna non è la libertà nell’uomo, ma dall’uomo. E la libertà dell’essere umano è la libertà dalle sue azioni ripetitive, dalla sua ferocia prevaricatrice, dalla sua violenta stupidità.
Il film, pur con i suoi limiti, apre una finestra su un mondo, apre la mente al pensiero e grida, grida a voce alta l’inutilità del sopruso e l’idiozia dell’ingiustizia.
Trasposizione del romanzo omonimo di Shahrnush Parsipur, Donne senza uomini segna il debutto alla regia di Shirin Neshat, intensa e sensibile artista iraniana che ha scelto di vivere e lavorare in America. La terza stella piena è di incoraggiamento. La stoffa c’è. Vedremo se la regista saprà tesserci un vestito…