Mala tempora currunt, recitava l’antico adagio. E se il cinema è sempre stato lo specchio dei tempi, la società italiana che si riflette (ma quanto riflette?) in questo cinema non è certo la più bella del reame.
La commedia all’italiana, in particolare, più o meno volgare e triviale, più o meno ridanciana e solare, ha sempre raffigurato con pennellate impressioniste o impressionanti, a seconda dei casi, l’italietta delle magagne, bilanciandosi, non sempre sapientemente invero, tra films capaci di raggiungere il senso pieno della realtà e films, invece, rappresentativi loro malgrado e in maniera vieppiù superficiale, dei luoghi comuni caserecci in pieno stile fraschetta e bar sport. Ma i luoghi comuni cambiano (almeno loro) e adesso vanno di moda omosessualità, famiglie di fatto e inseminazioni artificiali. E’ questa, in estrema sintesi, la trama di “Manuale d’amore 2 (capitoli successivi)” (e quanti ancora ne seguiranno, visto il successo?), condito dal sempreverde e intramontabile tradimento all’amatriciana. Molte parole di più, non vale comunque la pena sprecarle, per la trama.
Veronesi (quale? verrebbe da chiedersi) mobilita, ma non nobilita, un cast all star per ridere sui temi caldi del momento, per lo meno quei temi che la politica nostrana ci propone e ci propina quasi (“quasi”…) fosse un vecchio e stanco difensore in crisi, che si rifugia in calcio d’angolo o sparecchia la palla in tribuna, per non affrontare i problemi seri e veri che gli si parano innanzi. Alla fine verrebbe da parafrasare Edoardo Bennato e dire: Sono solo dei filmetti, non metteteli alle strette, per non tentare vanamente di celare l’evidente inopportunità di sprecare ulteriori parole per trovare nel film chissà quali spunti di riflessione sociopolitica e di (mal)costume. Ma un tempo le risate ce le facevano fare i Sordi, i Gassman, i Manfredi, con la direzione dei Monicelli, dei Risi e dei Comencini e, incredibile, si pensava!! Ora non ci rassegniamo, non ci accontentiamo di Carlo Verdone ingabbiato nella trita e ritrita patetica macchietta dell’uomo di mezza età che affronta la crisi, flirtando con ragazzine allegre e disinibite (verrebbe da essere maligni e pensare che non stia più neanche recitando, ormai!). Non possiamo, non dobbiamo, non vogliamo! Altrimenti poi non abbiamo più il diritto di lamentarci se nessun film italiano ha rappresentato il nostro cinema glorioso, alla sessantesima edizione del festival di Cannes. Certo, non sono questi film ad avere pretese di uscire dai nostri a volte angusti (cinematograficamente parlando) confini, ma perché sprecare attori bravi come Sergio Rubini e Barbora Bobulova, attori ultimamente molto lanciati come Riccardo Scamarcio e Fabio Volo, oltre all’icona della nostra bellezza mediterranea, Monica Bellucci, per raccontare storielle banali e sempliciotte, la cui unica morale pare essere che la Spagna di Zapatero è la terra promessa della libertà? Forse chi sta contando i soldi incassati con questo film (19.000.000 €, terzo maggior incasso italiano della stagione, ventisettesimo maggior incasso italiano di sempre e tre nomination ai Nastri d’argento), avrebbe argomenti validi per rispondere, non c’è dubbio. Però il dubbio resta, nell’annosa questione se sia il pubblico, la platea, a desiderare questo spettacolo o se questo é lo spettacolo che si vuole proporre al pubblico, perché educarlo ad altro sarebbe complicato e, forse, controproducente. La speranza è l’ultima a morire, per carità! Però, per ora, pensando al passato, non possiamo che concludere ciclicamente la nostra divagazione, con un sic transit gloria mundi.