Todd Solondz ha il merito di condurci in una realtà stralunata e depressiva, disturbante e straniante, ma nonostante questo o, forse, proprio per questo, riesce a rapire il nostro intelletto, forse più del nostro cuore. “Life during wartime”, questo il titolo originale (ma nel titolo italiano si è preferito dare voce a uno dei temi ricorrenti del film) è il seguito di quel piccolo gioiello che alla fine degli anno ’90 ci sconvolse, il geniale “Happiness”, ma con attori differenti ad interpretare i personaggi del film.
Cantore cinico di una società imperiale sempre più in declino, Solondz tratteggia piccoli personaggi strepitosi, come Chloe, già schiava dello xanax e del karaoke a sette anni, l’informatico abulico ossessionato dalla Cina e, tra dialoghi surreali, ma fulminanti che sono valsi al regista il premio per la miglior sceneggiatura all’ultimo festival di Venezia, ci porta lungo percorsi stimolanti per la nostra mente avida di originalità e intelligenza.
Ma in questo cerebralismo un po’ radical-chic riesce anche a commuoverci, quando il padre pedofilo, rifiuto della società, riesce a incontrare il figlio universitario, perché, in fondo, dinanzi a un padre, che importanza hanno libertà e democrazia?
Si può perdonare? Si può dimenticare? Forse né l’uno né l’altro. Probabilmente non si può perdonare, se si dimentica, né si può dimenticare, se si perdona.
L’America di Solondz è un paese in guerra, in guerra con se stesso, il cui popolo decadente e senza più valori si trascina tristemente in una società malata e morbosa che sogna la normalità e la semplicità.
Certo, non un film per molti. Ma a quei molti lasciamo volentieri i cinepanettoni.