Devo fare una premessa doverosa, per onestà intellettuale: io ADORO Nanni Moretti e qualunque cosa egli faccia. Cionondimeno, il film di Antonello Grimaldi, tratto dall’omonimo libro di Sandro Veronesi, vincitore del premio Strega 2006, è oggettivamente un buon film, oltre ad essere senz’altro il suo miglior film (la sua filmografia non brillantissima si fa notare più per i suoi successi televisivi che cinematografici). La storia è molto semplice e si disvela pienamente nell’ossimorico titolo del film: Pietro Paladini ha subito una perdita potenzialmente devastante, quella della moglie, una perdita tanto più pesante, quanto più difficile è manifestare il dolore e, forse, la sua assenza, corroborata da un non troppo nascosto senso di colpa. Pietro Paladini ha una figlia, per la quale decide di rimanere ogni giorno fuori scuola ad aspettare che esca, dopo averla accompagnata. Intorno a lui, solo in apparenza immobile, si muove un micro e macrocosmo di persone, amici, parenti, conoscenti che non riescono a capirlo e sconosciuti che invece lo capiscono fin troppo bene e ognuno intreccia con lui rapporti e relazioni che inevitabilmente ci aiutano a capirlo meglio.
Se si dovesse cercare una metafora del film si potrebbe immaginare un mare calmo in superficie, ma che nasconde correnti bollenti e ghiacciate in costante movimento e abissi, che come tutti gli abissi sono bui e oscuri e spaventosi, un mare non meno pericoloso di quello in cui, all’inizio del film, sta per affogare Isabella Ferrari. Non mi soffermerò neanche un secondo sulle polemiche stolte riguardanti la scena di sesso, perché la vera storia si basa sul rapporto tra un padre in crisi e una figlia in crescita, la bravissima Blu Yoshimi, che se da un lato subisce i contraccolpi di una sorta di mimesi emotiva con il padre, dall’altro, forse proprio a partire da questo contraccolpo, trova le forze inconsapevoli per iniziare a crescere, con la saggezza ingenua che solo un bambino può avere, nell’interpretare la realtà. Il film è soprattutto un film sui rapporti umani, da quelli più stretti a quelli solo in apparenza superficiali, quei rapporti che trovano in una città come Roma la giusta scenografia, il giusto spartito, in cui ogni personaggio, come fosse una nota, incontrando la successiva e salutando la precedente, diviene musica. E’ un film su una crisi, sul caos, solo in apparenza calmo, che ognuno ineluttabilmente è costretto ad affrontare, al verificarsi di certi eventi traumatici, eventi che costringono a guardarsi non solo allo specchio, ma, ancor più penosamente, attraverso esso. E allora devi essere in grado di semplificare l’equazione complicata in cui si trasforma la tua vita, devi rivoluzionarla, cambiarla o morire. Il film offre molti spunti. Magari, a tratti, qualche passaggio va a vuoto, ma nel complesso, regge e gli attori fanno la loro parte, pur essendo spesso maschere della commedia dell’arte, compreso il morettizzato protagonista (non a caso, Moretti è co-sceneggiatore del film). Azzeccata la colonna sonora, in cui spiccano la simpatica “Cigarettes and Chocolate Milk” di Rufus Wainwright e la splendida “L'amore trasparente” di quel grandissimo autore italiano che è Ivano Fossati.