Cominciamo dal bel titolo originale del film,
“Before the devil knows you’re dead”, tradotto in “Onora il padre e la madre”, per denunciare l’assurda e deprecabile tradizione italiana di modificare i titoli, a volte con esiti catastrofici (si pensi al “Domicil coniugal” di Truffaut, tradotto con “Non drammatizziamo, è solo questione di corna”!!!!!). Ma, laddove la traduzione risulti incomprensibile, non si potrebbe lasciare il titolo originale ed eventualmente inserire un sottotitolo in italiano? Siamo davvero un popolo tanto pigro e ignorante da non saper sopportare due parole di inglese? Vabbè, chiusa l’invettiva, torniamo al film. Sidney Lumet è uno dei grandi mestieranti di Hollywood, che nella sua carriera ha anche sfiorato il capolavoro con film quali “La parola ai giurati” e “Quinto potere”; stavolta ha confezionato un discreto prodotto, ma non il capolavoro tanto decantato da gran parte della critica nostrana. Il cast, composto da un Philip Seymour Hoffman in un periodo d’oro, dopo l’Oscar per Truman Capote, da un Ethan Hawke che finalmente recita in un ruolo diverso, da un sempre grande Albert Finney e da una piacevolmente riscoperta (in tutti i sensi) Marisa Tomei, offre performance notevoli, abilmente diretto da Lumet, ma il film non offre nessuno spunto originale, anche nel complesso ma già visto montaggio diacronico. La trama, due fratelli in crisi economica che decidono di rapinare la gioielleria dei genitori, è in realtà un mero pretesto per descrivere il disfacimento morale di una famiglia come contrappunto di un disfacimento più grande, che coinvolge tutta la società, una società sempre più simile a una giungla che ti fagocita, in cui sono l’istinto e le pulsioni a dominare e in cui se non puoi permetterti di pagare gli alimenti a tua moglie e una gita a tua figlia, sei un fallito, una società iper individualista, in cui ognuno mira alla propria soddisfazione, in cui il calore umano è solo un solco tiepido lasciato da un corpo sul letto e in cui ciascuno cerca la sua disperata via di fuga. In un contesto così degradato e depauperato di ogni valore umano, si muovono (o sono mossi?) solo personaggi negativi e Lumet è bravo a scavare nell’anima buia di ciascuno, mostrandoci le debolezze e le recriminazioni. Intenso è il dialogo tra Finney e Hoffman, in cui poche parole e pochi gesti servono a rendere chiara tutta la frustrazione di un figlio maggiore e tutta la miopia di un padre padrone che anziché provare a capire i propri figli, ha preferito rinchiuderli in ruoli ben precisi. Alla fine, in fondo, non ci sono carnefici veri, ma solo vittime che cercano facili rimedi alle proprie sofferenze, creando solo nuove inconsapevoli vittime. Il film è intriso di un pessimismo crepuscolare e decadente, è un film duro, cupo e violento. Per cui “lasciate ogni speranza, voi ch’entrate”. Un appunto, anzi, un disappunto, sul finale, un po’ tirato via.