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In ricordo di un grande: Michelangelo Antonioni - seconda puntata

Proseguiamo la commemorazione di Michelangelo Antonioni con l’analisi di altri due suoi film chiave. 

La notte (1961):

 

soggetto:M.Antonioni    


sceneggiatura: M. Antonioni, E. Flaiano, T. Guerra


fotografia: Gianni Di Venanzo

 

musica: Giorgio Gaslini

 

interpreti: Marcello Mastroianni, Jeanne Moreau, Monica Vitti, Bernhard Wicki, Vincenzo Corbella, Gitt Magrini

 

 

 

 

 





Secondo film della cosiddetta “trilogia” (assieme a “L’avventura” e “L’eclisse”) “La notte” costituisce uno dei maggiori risultati di Antonioni. Il punto di forza risiede principalmente nelle immagini che fanno del film una vera e propria opera d’arte (d’altro canto la fotografia e la pittura hanno sempre costituito per il regista una reale professione). Ed è a queste immagini che viene affidato il commento della storia di Lidia e Giovanni che si svolge nell’arco di circa dodici ore. 

 

Lui (Marcello Mastroianni) è uno scrittore affermato; lei (Jeanne Moreau), una donna di ricca famiglia. Sposati da alcuni anni non hanno figli. Dopo i titoli di testa che scorrono sulle inquadrature dei grattacieli di Milano il film si apre con la visita della coppia ad un loro amico in stato terminale che, consapevole di aver poco da vivere, si rammarica di non essere stato capace di fare tutto quello che aveva progettato (“non ho avuto la forza di andare a fondo…” ). Lidia è costretta dopo pochi minuti ad andarsene: fuori della clinica scoppierà a piangere disperatamente (l’attrice francese oltre ad offrici una grande interpretazione incarna una delle più riuscite figure femminili del cinema di Antonioni). Giovanni uscirà poco dopo: fuori della stanza incontrerà una donna che, dopo averlo invitato nella sua stanza, lo abbraccerà in maniera possessiva.

 

Mentre si dirigono in macchina ad una cerimonia di presentazione dell’ultimo libro di Giovanni, questi racconta a Lidia l’episodio cui lei non da alcuna importanza. Si evince dai primi venti minuti che il loro è un rapporto freddo, inconsistente.

 

Dopo la cerimonia Lidia si allontana ed inizia un lungo cammino per le strade desolate di Milano (è sabato pomeriggio e siamo in estate). Ecco qui un’altra tipica situazione antonionana: pensiamo al vagabondaggio di Aldo ne “Il grido”, alle passeggiate di Vittoria ne “L’eclisse”, alla fuga di David Locke/Robertson in “Professione: reporter”. I suoi film sono spesso dei “road movie” ed è questo uno degli aspetti del suo cinema che ha esercitato forte influsso sull’ opera di Wim Wenders (alcuni titoli: “Paris Texas” e “Alice nelle città” che è quasi un rifacimento de “Il grido” ). Tornato a casa Giovanni non sembra preoccuparsi dell’assenza della moglie e quando lei gli telefonerà lui le risponderà con un laconico “ah! Sei tu!”. Lidia era tornata nel luogo in cui si erano incontrati ma Giovanni, che vi era giunto per ricondurla a casa, si mostra indifferente al timido entusiasmo da lei manifestato. Decidono (o meglio è lei che decide) di trascorrere la serata assieme in un night.

 

In seguito si recano ad una festa in villa organizzata da un industriale, Gherardini, che intende offrire a Giovanni un’opportunità di lavoro.  Si apre così la seconda parte del film in cui i due si vedranno ben poco assieme. La descrizione della festa ha indotto taluni a parlare di “tocco felliniano”: sarà la presenza di Marcello Mastroianni (reduce dalla “Dolce vita”) e la collaborazione di Ennio Flaiano (che assieme a Tonino Guerra e al regista ha scritto senza ombra di dubbio la sceneggiatura ed i dialoghi più belli dell’opera di Antonioni), ma di Fellini c’è poco o niente. Sia Giovanni che Lidia avranno l’opportunità di tradirsi a vicenda (lui con la figlia di Gherardini, Valentina, impersonata da Monica Vitti, lei con un intellettuale) ma non lo faranno.

 

Verso l’alba la coppia si allontana dalla casa. Lidia afferma che non esiste più amore tra di loro mentre Giovanni lo nega. Lei gli legge una lettera scritta da Giovanni (ma lui non la ricorda) in cui le dichiara che con il tempo l’amore, la passione sarebbero svaniti lasciando il posto ad una triste abitudine (“…sentirti non mia ma addirittura una parte di me, una cosa che respira con me e che niente potrà distruggere se non la torbida indifferenza di un’abitudine che vedo come l’unica minaccia”). 

 

L’ultima immagine è un abbraccio “appassionato” tra i due con cui Giovanni cerca (o crede) di smentire tutto quello che le aveva scritto. Lei non gli crederà. 

 

Dicevamo all’inizio della forza visiva del film. La maestria di Antonioni, coadiuvata dall’eccellente fotografia in bianco e nero di Gianni Di Venanzo, potevano soltanto produrre ottime immagini.

Bellissima la scena dell’incontro/scontro con la ninfomane su di uno sfondo bianco. Oppure le inquadrature sul pavimento a scacchi su cui Valentina fa scivolare il portacipria (si tratta di un gioco inventato da lei stessa).

Pensiamo, infine, ai primi piani sul volto di Jeanne Moreau: il suo sguardo triste, le sue occhiaie, descrivono meglio di qualsiasi parola il suo stato d’animo, il suo (altra costante del cinema di Antonioni) fallimento che è anche il fallimento di Giovanni e degli altri protagonisti del film.

 

Con un ritmo senza dubbio più lento rispetto a “L’avventura”, “La notte” analizza in maniera maggiormente compiuta i personaggi ed offre una visione del mondo borghese lucida e disperata che ha ben pochi paragoni nel cinema italiano.

 

Qualche anno dopo Florestano Vancini con “Le stagioni del nostro amore” (1966)  metterà in scena una critica contro la società moderna con un risultato tutt’altro che negativo ma non all’altezza delle intenzioni. 

 

 

Blow-up (1966):

 

soggetto: M. Antonioni (da un racconto di Julio Cortazar)  


sceneggiatura: M. Antonioni, T. Guerra


fotografia: Carlo Di Palma

 

musica: Herbert Hancock

 

interpreti: David Hemmings, Vanessa Redgrave, Sarah Miles, Veruska, Jane Birkin

 

 

 



“Blow up”, vincitore della Palma d’oro al Festival di Cannes del 1967 e grande successo commerciale, costituisce la prima opera del maestro ferrarese interamente realizzata all’estero e precisamente a Londra.

La storia (ispirata ad un racconto dello scrittore argentino Cortazar, “La bava del diavolo) presenta le caratteristiche di un giallo che, come nel caso de “L’avventura” , resterà irrisolto. Il protagonista, Thomas, è un fotografo di professione. Uomo ricco (gira in Rolls Royce), con atteggiamenti fuori dal comune (impazzisce nel vedere un elica e decida di acquistarla), è completamente dedito al suo lavoro. Ha una moglie, ma di lei sappiamo soltanto che lo tradisce apertamente. Per completare un libro fotografico decide di realizzare alcune foto in un parco. Qui incontra una coppia: lei (Vanessa Redgrave) è giovane, lui potrebbe essere suo padre (nel racconto di Cortazar abbiamo un adolescente ed una donna matura). Terminato il suo lavoro la donna lo insegue e con aria preoccupata ed insistente gli chiede di consegnarle il rullino. Lui si rifiuta ma la invita a passare nel suo studio più tardi. Vi si presenterà e gli richiederà le foto. Thomas la ingannerà dandole un altro rullino. “Cosa diavolo c’è di tanto importante in quelle foto?” lui le domanda: ormai la curiosità è altissima e Thomas procederà personalmente a sviluppare le foto.  

La parte centrale del film descrive in maniera accurata il procedimento di sviluppo e vedrà Thomas trovarsi di fronte ad un enigma: dietro una siepe sembra scorgersi un uomo morto. Successivi ingrandimenti (la traduzione di “blow up” è “ingrandimento”) riveleranno l’esistenza di un omicidio (da dietro un’altra siepe si intravede un uomo con la pistola). Deciso a chiarire il mistero si reca nuovamente al parco dove avrà la conferma di quello che ha fotografato. Che fare? La ragazza è introvabile (gli aveva lasciato un numero di telefono falso). Pensa di rivolgersi ad un suo amico ma non gli sarà di aiuto. A rendere la vicenda ancora più misteriosa è il successivo furto delle foto. Ormai non resta che tornare al parco e fotografare il cadavere ma giuntovi la mattina successiva non lo troverà più. 

Nell’ultima scena Thomas assiste ad una partita di tennis dove dei ragazzi (che sembrano dei mimi) giocano senza palla e racchette. Il film si conclude con il protagonista che, sullo sfondo del prato, sparisce lasciando il posto alla scritta “fine”.

Molte cose si potrebbero dire su “Blow up” e molto, infatti, è stato scritto. Innanzitutto è da sottolineare che l’attenzione del regista si concentra essenzialmente sulla vicenda più che sui personaggi. È un fatto nuovo soprattutto se pensiamo al fatto che da “Cronaca di un amore” sino al precedente “Deserto Rosso” Antonioni ci ha offerto una descrizione approfondita della psicologia dei protagonisti. Diverso il caso di “Blow up” dove sia Thomas, la moglie, la ragazza del parco e le altre figure minori sembrano corpi senza anima. Basta pensare ai comportamenti e soprattutto alle frasi del fotografo (interpretato da un David Hemmings all’inizio della sua carriera):

 “veramente non è mia moglie ma abbiamo dei figli. No niente figli. Non è bella ma si sta bene con lei. No si sta male. Ed è per questo che non ci sto” 

Sono frequenti nel cinema di Antonioni (soprattutto da quando ha iniziato la collaborazione con Tonino Guerra) dialoghi surreali, ai limiti dell’assurdo ma qui sicuramente si raggiunge il vertice.  Altra situazione paradossale:

Thomas a casa trova la moglie a letto con un suo amico. Poco dopo lei lo raggiunge allo studio e gli domanda: “prima volevi qualcosa da me?” 

Dicevamo quindi dell’importanza data alla storia, ovverosia del messaggio che il regista vuole trasmetterci. Sintetizzando possiamo dire che il film è una dimostrazione della differenza che esiste tra la realtà, che noi vediamo con i nostri occhi, e la rappresentazione della realtà, affidata alla fotografia, al cinema ed anche alla pittura. Assieme a “Professione: reporter” (dove questa tematica verrà meglio approfondita), “Blow up” costituisce il film più cinematografico di Antonioni, un film sul ruolo stesso del (suo) cinema che non è tanto quello di documentare le cose, quanto quello di fornirne un’interpretazione personale. Caso curioso che Antonioni abbia iniziato la sua attività realizzando documentari, ma è anche vero che, a differenza di altri suoi colleghi (Visconti e Rossellini in primis) ha saltato la fase del “Neorealismo” per dare vita ad un cinema completamente differente. 

Grande fascino ha esercitato “Blow up” nel mondo del cinema. Diversi sono i registi che vi hanno tratto ispirazione. Basti pensare a “Frammenti di paura” (1970) di Richard C. Sarafian, interpretato sempre da Hemmings, o a “Blow out” (1981) di Brian De Palma. Ma più di ogni altro è stato Dario Argento a risentire dell’influsso del film di Antonioni con “Profondo rosso” (1975). Non è un caso che la scelta del protagonista sia ricaduta su David Hemmings che qui interpreta un musicista che assiste personalmente ad un omicidio. Nella casa in cui si svolge il delitto ricorda di aver visto un quadro che poco dopo non c’era più (in realtà era uno specchio su cui era riflesso il volto dell’assassino). Anche qui si assiste ad una contrapposizione tra ciò che si vede e ciò che si crede di aver visto (questa è la teoria espressa dall’amico del musicista).

 Dopo “Blow up” Antonioni continuerà a girare all’estero. Solo nel 1981 riprende (con “Il mistero di Oberwald”) a lavorare in patria.  

 


In ricordo di un grande: Michelangelo Antonioni – prima puntata

Poco più di un anno fa, esattamente il 30 luglio, ci lasciava uno dei più grandi registi italiani: Michelangelo Antonioni. Senza ombra di dubbio possiamo dire che la sua opera è stata rilevante a livello mondiale: non solo per la collaborazione con attori, sceneggiatori e tecnici stranieri o per aver diretto più di un film fuori del territorio italiano ma anche e soprattutto per l’influsso che ha esercitato su numerosi registi, quali Wim Wenders o Alain Resnais, e per il grande apprezzamento della critica estera.

Sinteticamente ripercorriamo la sua vita: nato nel 1912 a Ferrara approda alla critica cinematografica alla fine degli anni trenta dopo aver conseguito la Laurea in Economia e Commercio (con una tesi relativa ai problemi di politica economica ne “I promessi sposi”). Negli anni quaranta dirige alcuni cortometraggi (il primo fu “Gente del Po”) e nel 1950 realizza il suo primo lungometraggio, “Cronaca di un amore”, che già denota alcuni tratti fondamentali della sua poetica. Seguono “I vinti”, “La signora senza camelie”, “Le amiche” e “Il grido”. Al successo di critica, però, non corrisponde quello del pubblico che arriverà nel 1960 con “L’avventura”, considerato uno dei suoi capolavori, con cui inizia la collaborazione con Monica Vitti, in seguito sua compagna, e che approfondisce la tematica dell’incomunicabilità, tematica già evidente dai suoi primi film e che costituirà la base di tutte le sue successive opere: “La notte”, “L’eclisse” e “Deserto rosso” (suo primo film a colori).

“L’avventura” segna anche l’avvio della lunga collaborazione con Tonino Guerra che scriverà le sceneggiature di quasi tutti i suoi film. Sul finire degli anni sessanta inizia a lavorare all’estero e dirige “Blow up” e “Zabriskie Point”. In seguito ad un documentario sulla Cina realizza un altro capolavoro “Professione: reporter”, girato in più paesi e nobilitato dalla magistrale interpretazione di Jack Nicholson e dalla fotografia di Luciano Tovoli. Negli anni ottanta realizza un film sperimentale, “Il mistero di Oberwald” e nel 1982 “Identificazione di una donna”. Dopo una lunghissima assenza causata anche da un ictus che lo ha reso muto e semiparalitico si avvale della collaborazione di Wim Wenders e dirige nel 1995 “Al di là delle nuvole”, film ad episodi ispirato ad alcuni suoi racconti, che purtroppo non raccoglie i favori della critica. L’ultima sua opera è “Eros” episodio de “Il filo pericoloso delle cose” (2005). Gli ultimi anni li trascorre dedicandosi ad una delle sue prime passioni: la pittura. E nello stesso giorno in cui ci abbandona viene a mancare un altro nome del cinema mondiale: Ingmar Bergman.

Ricordiamo il regista ferrarese recensendo alcune delle sue opere più significative. 

Le amiche (1955)

soggetto: M. Antonioni (dal racconto “Tra donne sole” di Cesare Pavese)

sceneggiatura: M. Antonioni, Suso Cecchi D’Amico, Alba De Cespedes

fotografia: Gianni Di Venanzo

musica: Giovanni Fusco

interpreti: Gabriele Ferzetti, Eleonora Rossi Drago, Madeleine Fischer, Franco Fabrizi, Ettore Manni, Valentina Cortese

 Con “Le amiche”, premiato con il Leone d’argento a Venezia, Antonioni realizza un film interessante sotto vari punti di vista. Innanzitutto è la prima (e unica fino ad ora) trasposizione  cinematografica di un racconto di Cesare Pavese: più volte romanzi di autori italiani quali, ad esempio Pirandello, D’Annunzio e Pratolini, hanno costituito il soggetto di film, ma nessun regista aveva mai pensato a Pavese. Altro aspetto rilevante è l’abilità con cui il regista riesce a delineare nell’arco di un’ora e mezza la psicologia di numerosi protagonisti a partire da Clelia (interpretata da Eleonora Rossi Drago, recentemente scomparsa) che arrivata a Torino è testimone del tentato suicidio di una ragazza, Rosetta. In tale occasione conosce una delle sue amiche, Momina, che a sua volta conosce l’architetto (Franco Fabrizi) che si sta occupando dei lavori nella casa di moda di Clelia. Su questi ed altri personaggi si concentrerà tutta la storia che vedrà Clelia (nel racconto di Pavese è anche narratrice) confrontarsi con le “amiche”: Rosetta, che fa capire di aver tentato il suicidio per amore di un uomo sposato (Lorenzo, impersonato da Gabriele Ferzetti), Momina, Mariella e Nene (la moglie di Lorenzo, al corrente della situazione). Scena emblematica è la gita al mare in cui tutte e tutti gettano la maschera svelando la loro ipocrisia: la stessa Rosetta accusa di ipocrisia Momina. Una situazione simile viene a verificarsi durante una cena in trattoria: Lorenzo ha appena saputo che Nene si trasferirà all’estero per lavoro. E’ Rosetta a riferirglielo, sicura che ciò possa costituire l’avvio di una relazione solida. Ma la reazione di Lorenzo è ben diversa. Con un banale pretesto arriverà alle mani con l’architetto e, dopo essersi sfogato con gli altri definendoli “falliti da salotto” se ne andrà. Rosetta gli va incontro ma lui la rifiuta. È la fine. La brevissima scena successiva ci mostra il ritrovamento del corpo annegato di Rosetta. Clelia si sente corresponsabile della sua morte. Ripartirà per Roma per motivi di lavoro interrompendo così anche la timida relazione che aveva instaurato con l’assistente dell’architetto (Ettore Manni). Antonioni mette in mostra il fallimento di tutti i protagonisti, l’incapacità di raggiungere i loro obiettivi e quindi anche la loro difficoltà di comunicare. E’ quindi già evidente nel regista l’attenzione verso questi aspetti che verranno trattati in maniera più sistematica nei film successivi. Come si è detto prima, un film di attori che ha una grande forza nei dialoghi (cui ha collaborato anche una scrittrice molto attenta alle storie femminili: Alba De Cespedes). Le opere posteriori saranno invece caratterizzate da una comunicatività affidata essenzialmente alle immagini: pensiamo a “Professione: reporter” che se non fosse per i pochi dialoghi potrebbe considerarsi un film muto. Concludendo possiamo considerare “Le amiche” il miglior film di Antonioni degli anni cinquanta. 

Deserto rosso (1964)

soggetto e sceneggiatura: M. Antonioni e Tonino Guerra

fotografia: Carlo Di Palma

musica: Giovanni Fusco

interpreti: Monica Vitti, Richard Harris, Carlo Chionetti, Rita Renoir 

Nella filmografia di Antonioni, “Deserto rosso” costituisce una delle tappe più importanti. Il film non è un capolavoro, anche se la critica francese lo ha definito tale, ma presenta alcuni aspetti che lo pongono tra le opere più moderne del regista romagnolo. La storia si svolge durante l’inverno del 1963 nella zona industriale di Ravenna: un fumo giallo, discariche, rifiuti industriali, questo il “deserto” in cui Giuliana (Monica Vitti), casalinga di 30 anni con figlio, è costretta a vivere per gli egoismi del marito Ugo, ingegnere chimico. Psicologicamente la donna è instabile: in precedenza ebbe un grave incidente d’auto (che in realtà fu un tentativo di suicidio) ed ora ha paura di tutto, trema, soffre di incubi notturni, ma soprattutto si sente estraniata all’interno della società. Nessuno si prende cura di lei, né il marito impegnato nei suoi affari, né il figlio, che si diverte ad angosciarla, né gli amici, gente senza arte né parte. Le cose sembrano mutare quando entra  in scena un nuovo protagonista, Corrado (Richard Harris), un ingegnere giunto a Ravenna per cercare operai disposti a lavorare in Patagonia. Fra di loro sembra instaurarsi una certa simpatia. Come Giuliana, anche Corrado non possiede un equilibrio psicologico ed è alquanto insicuro. “Delle volte mi sembra di non avere alcun diritto di trovarmi dove sono, per questo ho sempre voglia di andarmene”, afferma l’uomo. I due si incontrano per l’ultima volta in una camera d’albergo, ma non accade nulla (una simbolica spalliera di metallo rosso li divide). Dopo la partenza di Corrado, anche Giuliana vorrebbe andarsene, ma rinuncia. Nell’ultima sequenza rivediamo la donna con il figlio vagare senza meta tra le fabbriche e i detriti industriali come all’inizio del film.La sceneggiatura, scritta dal regista assieme a Tonino Guerra, riprende quelle che sono le tematiche fondamentali del cinema di Antonioni, a partire da “L’avventura” (1960) sino agli ultimi film. Anche qui la protagonista è conscia di vivere in un mondo freddo, assurdo, in cui l’affarismo domina sui sentimenti, dove le persone sono degli automi privi di personalità, dove il progresso ha attecchito; è difficile interpretare la realtà in un mondo come questo, perché tutto sembra falso. Di fronte a un tale stato di cose, Giuliana no reagisce e preferisce sognare; nella stupenda scena della favola narrata al figlio, vediamo anche cosa: un’isola ricca di vegetazione dove il mare limpido è solcato da uno splendido galeone (e non da una petroliera…) e regna la tranquillità. Un vero e proprio “paradiso incontaminato”, la perfetta antitesi della deprimente zona in cui Giuliana vive. È frequente in Antonioni l’allusione ad un luogo quasi primitivo, dove non è giunto il progresso; pensiamo alle isole Lipari ne “L’avventura”, alle foto del Kenya ne “L’eclisse”, al parco londinese di “Blow up”, al deserto in “Zabriskie point” e “Professione: reporter”, tutti luoghi ben diversi da quelli in cui i personaggi antonioniani vivono abitualmente. È soprattutto ne “L’eclisse”, opera migliore almeno nella sceneggiatura, che si notano taluni parallelismi con “Deserto rosso”: entrambe le protagoniste sono di natura irrequieta e non riescono a comprendere le “leggi” che regolano la società. Vittoria ne “L’eclisse” non capisce cosa sia veramente la Borsa (“Un ufficio, un mercato, un ring”) e ciò spiega il suo difficile rapporto con Piero, l’agente di cambio, e, alla stessa maniera, Giuliana non comprende l’utilità delle fabbriche. Il progresso è una delle principali cause dell’incomunicabilità e dell’alienazione, che tra l’altro sono le problematiche maggiormente dibattute nel cinema di Antonioni; ciò non deve far pensare ad una monotonia, poiché il prodotto finale è sempre risultato originale e al passo con i tempi. Tuttavia la sceneggiatura presenta alcune imperfezioni: spesso i dialoghi rendono l’opera un po’ troppo teorica ed anche la recitazione non è delle migliori. La vera novità è costituita dal colore, utilizzato per la prima volta da Antonioni, attraverso il quale sono stati ottenuti effetti visivi di grande prestigio. La bellezza delle immagini, cui va il contributo del direttore della fotografia Carlo di Palma, assegna al film grande forza e qualità, compensando così quelle pecche che caratterizzavano la sceneggiatura.   


Passò l'angelo e disse "Amen"

<<...già il fatto che si chiamasse "Signore", mi dava un po' fastidio; penso si possa vivere bene anche senza religione, anzi, meglio! >> (Dino Risi)

Il 07 giugno di quest’anno, all’età di 91 anni, è venuto a mancare Dino Risi, regista e sceneggiatore italiano nato a Milano il 23 dicembre 1916.

Già controcorrente dalla nascita consegue una laurea in medicina, ma si sottrae alla volontà dei genitori che lo vorrebbero psichiatra e inizia a lavorare per il mondo del cinema (le primissime collaborazioni con Mario Soldati, Piccolo Mondo Antico 1940, e Alberto Lattuada, Giacomo l’idealista 1942).
E meno male, diciamo noi, perché ha così inizio la carriera di uno tra i più importanti registi italiani, uno tra quelli attenti ai cambiamenti del nostro paese e che ha messo in evidenza uno spaccato amaro, ma reale, della società italiana.

Qualche esempio? Il suo primo cortometraggio (Barboni, 1946) ha come soggetto la disoccupazione a Milano, proseguendo troviamo Buio in sala (1948), un corto girato in una Milano con ancora i segni e le macerie della guerra; dieci anni dopo viene Il Vedovo (1958), una satira di costume con una straordinaria Franca Valeri e l’Albertone nazionale; sulla scia come non citare Gaucho (1964) la squallida trasferta argentina di un gruppo di scalcagnati cineasti italiani.

Il cinema è per Risi “maestro di vita”, così lo definì lui stesso, ed è quindi inutile infiocchettare una realtà spiacevole perché non è così che la si cambia.
Risi, infatti, effettua una rivoluzione unica nella storia del cinema poiché priva  la commedia privandola del lieto fine (vedi Una Vita Difficile, 1961). Definito "cinico" per questo, lui ribatteva "disincantato" perché l’Italia disegnata nei suoi film era una nazione abbagliata dal boom economico e desiderosa di cancellare il brutto e l’orribile che la guerra aveva lasciato. Un continuo tira e molla, possiamo dire, tra una generazione desiderosa di evadere e un Dino Risi determinato a riportarla con i piedi per terra.

Ma Dino Risi era anche divertente, a volte spietato, e dalla battuta sempre pronta e tagliente. Carlo Vanzina afferma che “per amore di battuta era capace anche di far piangere una persona” e questo la dice lunga sulla sua ironia. Silvio Orlando, che purtroppo non ha mai lavorato con lui, ricorda così un loro incontro: “Una volta in Francia, dove mi trovavo per ritirare un premio, sul palco mi chiese, guardando i miei pantaloni troppo lunghi: "Orlando, ma chi gliel’ha fatto l’orlo a quei pantaloni?"”. Vittorio Sgarbi, suo grande amico, si diverte pensando alla battuta di Risi su Nanni Moretti: “Nanni spostati e fammi vedere il film".

Anti-retorica, modesto e intelligente Dino Risi è saputo entrare con incisione nella società italiana, di ieri e di oggi. Caro al pubblico e amato dalla critica, riceve l'omaggio del Festival di Cannes, che nel 1993 gli dedica una retrospettiva delle sue quindici opere più significative; nel 2002 arriva il Leone d'Oro alla carriera e il 2 giugno del 2004, in occasione delle celebrazioni della Festa della Repubblica, il regista riceve dal presidente Carlo Azeglio Ciampi l'onorificenza di Cavaliere di Gran Croce.
I Mostri (1963)
Una soddisfazione questa per lui e per noi stanchi di vedere tanti grandi artisti apprezzati solo dopo la loro scomparsa. Chissà poi come commenterebbe ora l’arguto regista la sua dipartita visto che dichiarò: “La morte? Mi incuriosisce. Prevedo delle sorprese. La vita in fondo non è questa grande trovata...penso che bisognerebbe andarsene tutti a ottant'anni. Per legge….io, poi, mi sento come un inquilino abusivo. Sono rimasto senza amici. Erano tutti più giovani di me e se ne sono andati prima di me, Gassman, Fellini, Zapponi, Lapegna, Tognazzi, Mastroianni, Sordi, Manfredi. Non so più con chi parlare".

Queste parole serene ce lo fanno salutare con un sorriso, un arrivederci per lui e non un addio.

(Autobiografia, I miei mostri, 2004.)


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