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Un saluto a Claude Chabrol E’ dalla Turchia, dove mi trovavo in vacanza, che sono venuto a conoscenza tramite sms del decesso di colui che era attualmente il maggior regista francese vivente: Claude Chabrol. Più di cinquanta film racchiusi nel periodo che va dal 1958, anno in cui esordisce con “Le beau Serge”, al 2009 quando realizza “Bellamy” con Gérard Depardieu. Mezzo secolo di onorata attività in cui accanto ad opere poco rilevanti se non trascurabili (pensiamo a “Gli innocenti dalle mani sporche” un giallo insipido paragonabile ad un telefilm) da alla luce dei piccoli capolavori. Ma la carriera di questo regista è stata tutt’altro che semplice e dovranno passare diversi anni dal suo esordio prima di affermarsi e di riscuotere il plauso sia del pubblico che della critica. È infatti nel 1968 che qualcosa comincia a cambiare: tre film diretti a catena fanno di Chabrol un autore e fanno mutare l’idea che fosse il regista di serie B della Nouvelle Vague. “Stephane una moglie infedele”, “Ucciderò un uomo” ed “Il tagliagole” sono le opere del cambiamento. Il suo genere prediletto è il giallo (non a caso scrisse assieme a Rohmer un saggio su Hitchcock) ma Chabrol non si accontenta di essere un regista e vuole essere un autore che con i suoi film deve esporre delle tesi. Ed è proprio a partire da questi anni che matura in lui l’idea dell’eccesso, ovverosia dimostrare quali possono essere le conseguenze dell’eccesso visto sotto varie forme come il desiderio di arricchirsi, il tradimento o la brama di potere. I film realizzati successivamente ne confermano il talento almeno fino alla metà degli anni settanta: seguirà una fase di calo che, con l’eccezione di alcune opere come ad esempio “Violette Nozière”, durerà sino alla fine degli anni ottanta quando con “Un affare di donne” ottiene un successo di pubblico e critica che lo accompagnerà in quasi tutte le sue opere future. Ed è qui che sta la grandezza di Chabrol, che con il passare degli anni migliora a differenza di quello che (purtroppo) è successo e succede ad altri registi che un po’ per la stanchezza e un po’ per esigenze alimentare si trovano a dirigere film che in pratica non gli appartengono. Attivo fino all’ultimo ci dispiace pensare che non vedremo mai più un film di Claude Chabrol, che ci lascia pochi mesi dopo la dipartita di un altro dei padri fondatori della Nouvelle Vague: Eric Rohmer. Addio Eric... L’11 gennaio scorso ci ha lasciati Eric Rohmer, uno dei più importanti registi francesi contemporanei. Ma Rohmer (il cui vero nome era Maurice Scherér) fu anche commediografo, scrittore, autore di programmi televisivi nonché critico cinematografico. Assidua la sua collaborazione con la rivista “Les Cahiers du cinema” assieme a Rivette, Chabrol, Godard e Truffaut, ovverosia i pionieri della Nouvelle Vague. Una carriera lunghissima, iniziata nei primi anni cinquanta con alcuni cortometraggi e proseguita per circa mezzo secolo, in cui anno visto la luce opere di alto pregio tra cui ricordiamo “La mia notte con Maud” (senza ombra di dubbio il suo capolavoro), “L’amore e il pomeriggio” e “Pauline alla spiaggia”. Rohmer fu un regista originale, ben diverso dai suoi colleghi e che soprattutto è riuscito nel corso degli anni a restare fedele al suo stile. Quale stile? In una parola si potrebbe definire “essenziale”. Ma attenzione: l’essenzialità era un tratto distintivo della “Nouvelle Vague” i cui film venivano realizzati con pochi mezzi, ma mentre quasi tutti gli altri registi si convertiranno lentamente alle logiche di mercato (pensiamo soprattutto a Truffaut), Rohmer non tradirà mai (o quasi) il suo stile. E quindi le sue opere saranno sempre dominate dalla semplicità, dal rifiuto di scenografie costose (con l’esclusione di “Perceval”, suo unico film in costume) e dall’impiego di attori famosi. Uniche eccezioni, sotto quest’ultimo aspetto, sono “La mia notte con Maud” (in cui figurano Jean Louis Trintignant e Françoise Fabian) ed “Il ginocchio di Claire” (con Jean Claude Brialy). L’altro aspetto fondamentale del cinema rohmeriano erano i dialoghi: i suoi sono forse tra i film più parlati della storia del cinema e questo in parte spiega il non grande successo riscosso tra il pubblico medio che li ha spesso etichettato come “noiosi”. Addirittura “La mia notte con Maud” costituisce oggetto di una battuta in un notevole film di Arthur Penn, “Bersaglio di notte”, in cui Gene Hackman, all’invito della moglie ad andare a vederlo al cinema, risponde con “perché spendere dei soldi per sbadigliare?”. E pensare che Penn era uno dei registi più apprezzati dalla Nouvelle Vague! Ma tralasciando queste considerazioni non possiamo non ricordare questo grande regista che in un certo senso con i suoi film ci ha offerto la visione di un mondo che forse non esiste, un mondo in cui non si parla di politica, di tragedie, di malattie ma solo di amicizia, sentimenti e altre cose belle. In sostanza Rohmer poteva apparire come l’esatto opposto di Godard: eppure tra i due qualcosa in comune c’era…
Due curiosità: Godard fa una comparsata nel primo lungometraggio di Rohmer, “Il segno del leone”; La casa di produzione di una buona parte dei suoi film (“Les films du losange”) fu fondata assieme al futuro regista Barbet Schroeder (autore, tra gli altri, de “Il mistero Von Bulow”) Cinema in ALLEGRIAAAAA!!!
Dopo Michael Jackson, si torna a parlare di personaggi che, noti per una carriera apparentemente ben lontana da tematiche cinematografiche, hanno invece dato il loro contributo al mondo della celluloide.
L’ultimo dello stesso anno, a cavallo con il ’56, fu “Il prezzo della gloria” un film di guerra, genera davvero curioso per l’ormai noto presentatore che interpretò un rigoroso ufficiale di Marina; è la storia di un rapporto conflittuale tra un Comandante molto severo di un cacciatorpediniere e il suo Primo Ufficiale intento a portare a termine una pericolosa missione.
Tra le tante pellicole, sono da ricordare: “Il giudizio universale” di Vittorio DeSica (1961),
il bellissimo “C’eravamo tanto amati” di Ettore Scola (1974) in cui, durante una puntata del “Lascia o Raddoppia?” invalidava la domandona finale del concorrente Stefano Satta Flores preparato in materia di cinema, che contestava il motivo per cui, il bambino protagonista di “Ladri di Biciclette”, si metteva a piangere in una scena del film. Un importante apporto al mondo del cinema viene proprio dall’aver fondato con la Moglie la casa di produzione Bongiorno Productions (ce la immaginiamo pronunciata col suo impeccabile accento americano) in cui lavora tutta la famiglia soprattutto in ambito documentaristico. Seguono in tempi più recenti tutti gli spot pubblicitari insieme a Fiorello con cui ha divertito tutto il pubblico, ma, cosa più importante, si è divertito in prima persona con la sua particolare ironia e autoironia che, purtroppo, durante la sua carriera fatta di notai, domande rigorose e regole severe, è uscita allo scoperto di rado. In fin dei conti, un predicatore dell’Allegria come lui non poteva che essere allegro! Michael Jackson - King of Pop...Corn
In ricordo di un grande: Michelangelo Antonioni - terza e ultima puntata Professione: reporter (1975):
soggetto:Mark Peploe sceneggiatura: sceneggiatura: M. Antonioni, Mark Peploe, Peter Wollen
fotografia: Luciano Tovoli
musica: Ivan Vandor
interpreti: Jack Nicholson, Maria Schneider, Jenny Runacre, Stephen Berkoff
Con “Professione: reporter” Antonioni realizza uno dei suoi maggiori capolavori: lo stesso regista ebbe a dichiarare che il film, se fosse stato montato inserendo tutte le sequenze previste, costituirebbe la sua migliore opera. Concepito anni prima, doveva intitolarsi “Tecnicamente dolce” e a produrlo sarebbe stato Carlo Ponti. Quest’ultimo, però, respinse il soggetto e ne accettò un altro da cui prese corpo “Blow up”. In “Professione: reporter” assistiamo ad un scambio di persona (e di personalità): David Locke (Jack Nicholson in una delle sue migliori interpretazioni), un reporter che sta realizzando un servizio nel Sahara, si sostituisce ad un uomo fisicamente simile che egli trova privo di vita nello stesso albergo in cui alloggia. Creduto morto inizia a vivere una nuova vita. Attraverso l’agenda di Robertson (questo il nome della persona cui si sostituisce) capisce che egli era un trafficante di armi: decide di andare agli appuntamenti fissati che lo porteranno in più paesi. Durante il tragitto incontrerà una ragazza che lo condurrà sino alla fine, in Spagna, dove, in un piccolo Motel, verrà assassinato. Questo sinteticamente il plot narrativo del film, scritto assieme a Mark Peploe (fratello di Clare People, compagna di Antonioni e futura regista) e che per la prima volta da “L’avventura” non reca la firma di Tonino Guerra. I punti di contatto con “Blow up” sono evidenti: anche qui abbiamo un uomo che riprende delle immagini che, alla fine, risultano differenti dalla realtà. Ma il Thomas di “Blow up” è differente dal David di “Professione: reporter”. Il primo è un artista che trasforma le immagini in foto (cioè delle opere artistiche); il secondo, invece, filma situazioni reali con uno scopo documentaristico. Purtroppo si renderà conto (e ci renderemo noi stesso conto attraverso i numerosi flash-back) che quello che egli riprende con la telecamera è finzione. Un esempio evidente si ha durante l’intervista filmata ad un Presidente di un imprecisato Stato africano: quello che egli dice di fronte alla telecamera non corrisponde a quello che realmente pensa. Se con “Blow up” l’attenzione del regista si era focalizzata essenzialmente sulle immagini, in “Professione: reporter” è la figura del protagonista assieme alle immagini che egli vede e ci fa vedere a costituire l’asse centrale dell’opera. David Locke costituisce pertanto una delle classiche figure Antonioniane: un perdente, sia sotto il profilo professionale che sentimentale (la moglie lo tradisce e pur credendo poco alla morte del marito non sembra interessarsene più di tanto) e che crede di cambiare vita cambiando identità. L’aspetto che possiamo definire filosofico del film viene tradotto in immagini di altissimo livello attraverso la consueta sapienza del regista ferrarese acquistando così non solo un “valore cinematografico” ma anche un “significato cinematografico”. Il ruolo del regista, in fondo, è simile a quello del reporter David Locke e cioè riprendere delle situazioni “finte”. Antonioni inoltre sperimenta nuove tecniche di regia tra cui quella in cui la telecamera ci mostra delle immagini viste con l’occhio del protagonista (visione soggettiva) per poi inquadrare il protagonista stesso (visione oggettiva). Stiamo parlando della penultima sequenza del film (dieci minuti circa di durata) dove vediamo David seduto sul letto guardare fuori dalla finestra: la telecamera si avvicina all’inferriata, la oltrepassa e viene agganciata ad una gru che la fa ruotare lentamente di 360 gradi riprendendo la stessa finestra da fuori e mostrandoci David morto. Al di là della maestria tecnica dimostrata da Antonioni con l’ausilio del direttore della fotografia Luciano Tovoli (che in “Tenebre” di Dario Argento si divertirà a giocare in modo simile con la telecamera) questa tecnica del passaggio dalla visione soggettiva a quella oggettiva denota una finezza registica difficile da eguagliare. Il valore del film, accompagnato anche dal successo di pubblico e di critica, non si è tradotto in quei riconoscimenti o premi che hanno quasi sempre ricevuto le opere di Antonioni. Ma forse questo non ha costituito motivo di rammarico per il grande regista. Identificazione di una donna (1982):
soggetto:M. Antonioni sceneggiatura: M. Antonioni, Gerard Brach, Tonino Guerra
fotografia: Carlo Di Palma
musica: John Fox
interpreti: Tomas Milian, Daniela Silverio, Christine Boisson, Marcel Bozzufi, Veronica Lazar
“Identificazione di una donna” costituisce un caso singolare nella filmografia di Antonioni. La critica si è spaccata in due dividendosi tra coloro che l’hanno giudicato un capolavoro e coloro che lo annoverano tra i (pochissimi) errori del regista. Diciamo subito che sotto il profilo artistico il film è notevole, mentre i dubbi si hanno sul contenuto del film che riassumiamo in poche righe.
Niccolò (un Tomas Milian che abbandona provvisoriamente i panni del poliziotto borgataro) è un regista affermato che casualmente incontra una donna misteriosa, Mavi, con la quale inizia una relazione. Qualcuno (e non sapremo mai chi) non gradirà e informerà Niccolò sui pericoli cui può incorrere. Dopo poco Mavi sparisce. Sempre casualmente (la trama potrebbe assomigliare a un film di Lelouch) Niccolò incontra un’altra donna, Ida. Anche con lei la relazione avrà breve vita: la lascerà una volta venuto a conoscenza che il figlio che aspetta lo ha avuto con un altro uomo. Nell’ultima sequenza Niccolò illustra il soggetto del suo prossimo film: un film di fantascienza.
Il fatto che il protagonista impersoni un regista avrebbe potuto far pensare ad un completamento del discorso sull’essere – apparire affrontato con “Blow up” e “Professione: reporter”, ma non è così: infatti non vediamo quasi mai il regista all’opera. Siamo di fronte a una nuova analisi di un ennesimo fallimento. Niccolò sembrerebbe essere un uomo riuscito dal punto di vista professionale (anche se sappiamo poco o nulla delle sue opere) ma disordinato nella vita sentimentale. È divorziato e non riesce a creare un rapporto stabile con le due donne che incontra. La prima lo accusa di non sapere amare ed è consapevole che la loro è una relazione provvisoria. Lui addirittura le risponde con un “come sei lucida!”. Ida, a differenza di Mavi, è una donna più sicura e stabile. Anche con lei ne uscirà sconfitto.
“Identificazione di una donna” è, assieme a “La notte”, il film più dialogato di Antonioni. Quei dialoghi praticamente assenti sia in “Blow up “ che (soprattutto) in “Professione: reporter” tornano dominanti in questo film ma, a differenza de “La notte” (in cui costituivano uno dei maggiori punti di forza), qui risultano essere l’elemento più zoppicante se non fastidioso del film (il culmine tuttavia lo raggiungerà con “Al di là delle nuvole”). Che Antonioni volutamente abbia scritto dei dialoghi di tal genere per esaltare l’aspetto assurdo se non addirittura surreale del film è possibile (complici di questa operazione sono Tonino Guerra e Gerard Brach, sceneggiatore abituale di Polanski e di Annaud) ma non si può restare indifferenti a dialoghi del tipo: “Sai cosa faceva Dio prima della creazione del mondo?” oppure: “Tu sei la mia festa, la mia cocaina, sei tutto, ma non sei il mio ordine” A peggiorare il tutto poi il fatto che tali dialoghi vengono pronunciati da attori non a proprio agio. Tomas Milian (che resta comunque un attore di serie A) è fuori parte. Di Daniela Silverio (Mavi) possiamo apprezzarne (solo) il fascino. Una piccola parte al francese Marcel Bozzuffi (una delle sue ultime interpretazioni) che abbiamo apprezzato in ruoli di poliziotto o delinquente e che qui impersona (sembra) uno sceneggiatore. Forse il personaggio meglio riuscito è quello di Ida, affidato alla convincente interpretazione di Christine Boisson. Ma i dialoghi sconcertanti e l’interpretazione al di sotto della media non riescono tuttavia a non farci apprezzare anche questo film che, ancora una volta, possiede una forza visiva straordinaria. Pensiamo alle prime sequenze: Niccolò è appena rientrato a casa (Antonioni lo riprende con un’inquadratura dall’alto) dove il vento smuove le tende delle finestre aperte. Oppure al viaggio di notte su una strada isolata dove la nebbia non fa vedere quasi nulla. Infine le ultime scene ambientate sulla laguna di Venezia in inverno (la maestria del direttore della fotografia Carlo Di Palma è innegabile). “Identificazione di una donna” si distingue, inoltre, per l’aspetto tecnico. Se con “Professione: reporter” Antonioni aveva mandato in estasi i critici per la penultima sequenza (passaggio dalla visione soggettiva a quella oggettiva) qui assistiamo aduna “falsa soggettiva”: è la scena in cui il protagonista dalla finestra sembra osservare qualcosa che, dalla sequenza successiva, si direbbe essere la sua auto. L’avvicinarsi del protagonista stesso all’auto ci rivela, però, che non era questo l’oggetto che osservava e che quella che lo spettatore riteneva essere una visione soggettiva era in realtà una visione oggettiva.Da ricordare anche un’altra sequenza: l’auto di Niccolò parte ed esce fuori dall’inquadratura (la macchina da presa è immobile); nel frattempo cala il buio e rivediamo l’auto ricomparire dalla parte opposta. Particolarmente riuscita, inoltre, la scelta delle musiche. Il talento del grande regista resta confermato anche con “Identificazione di una donna”.
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